giovedì 2 ottobre 2008

I numeri del Rapporto Eurispes sulla Giustizia Penale

Valutazioni sul rapporto Eurispes sul processo penale
congresso delle Camere Penali tenutosi a Parma – settembre 2008




Le statistiche sono uno strumento indispensabile per analizzare il funzionamento di una struttura organizzata, ma se vengono selezionati gli indicatori sbagliati e/o se ne dà una lettura sbagliata è un disastro.

Purtroppo i cultori del diritto, quale sia il settore in cui sono impegnati, incontrano grandi difficoltà nel leggerle e generalmente si limitano alla lettura di quelle più elementari. Prima di affidare i quesiti agli statistici dovrebbero affidarsi ad esperti di organizzazione per la selezione degli indicatori giusti.

L'Eurispes nell'impostare questa ricerca ha seguito evidentemente le indicazioni del committente (Camere Penali), che non ha fornito ai ricercatori tutte le informazioni utili per una corretta ed utile acquisizione di dati.

1. PERCENTUALE DEI PROCESSI RINVIATI

E, difatti, uno degli obiettivi principali della ricerca è stato stabilire i motivi dei tanti rinvii del processi che vengono fissati al dibattimento. La ricerca ne ha tratto la conclusione che oltre il 76,1% di essi viene per vari motivi rinviato. Potrebbe essere un dato interessante se non fosse che la fissazione dei processi al dibattimento nel nostro codice non è disposta dal giudice del dibattimento che li deve celebrare, bensì dal PM o dal GUP che li fissano ad una data comunicata dal Tribunale, senza che questo possa organizzare i propri ruoli futuri valutando la complessità e la consistenza dei processi, di cui non conosce il contenuto. E il Tribunale, muovendosi alla cieca, fornisce le date delle udienze in modo da riempirle avendo presente l'ipotesi meno complessa e fissando un numero di processi maggiore di quelli che in realtà sarà in condizione di celebrare: tant'è che la prima udienza di fissazione nella quasi totalità dei tribunali viene definita "udienza di smistamento", cioè di rinvio per definizione, in modo da potersi rendere conto alla prima udienza fissata dei tempi effettivi preventivabili di trattazione e fissando una seconda udienza per la trattazione. Per giunta molti tribunali convocano per la prima udienza anche i testi, alimentando un generale scetticismo in ordine alla serietà della convocazione e la diffusa tendenza a non presentarsi rischiando di perdere una giornata a vuoto.

E dunque il 49,1% di rinvii per prosecuzione non rappresenta il sintomo di una situazione allarmante ma solo di un inadeguato meccanismo di citazione sul quale occorre intervenire per evitare di intasare l'udienza pubblica e di coinvolgere per questo momento di carattere esclusivamente organizzatorio tutta la struttura del processo pubblico con uno sproporzionato dispendio di impegno di una pluralità di soggetti (compreso l'intero collegio per un compito che può essere svolto dal solo presidente della sezione).

Ovviamente esso sarebbe reso molto più agevole se fossero definiti degli indicatori di complessità in grado di stabilire una prognosi di durata della trattazione in udienza. Ma né avvocati, giudici, Ministero della Giustizia e Parlamento attribuiscono generalmente ad esso una qualsiasi rilevanza, sprovveduti come sono di sensibilità verso la cultura della organizzazione.

Due indicatori (imputazioni e numero imputati) il Tribunale li potrebbe già utilizzare per una stima dei tempi di trattazione. Mancano tutte le altre variabili interne del processo come il numero dei testi e delle prove richieste dalle parti, compresa – in moltissimi casi - la determinazione degli imputati di optare per riti alternativi, circostanze che stravolge ogni previsione di stima dei tempi di trattazione. Il dato più paradossale è che le liste dei testimoni e la indicazione delle prove può essere presentata sino ad una settimana prima dell'udienza, cioè dopo che è stata già fissato il calendario delle udienze, il ché non consente di tenerne conto in sede di calcolo di durata prevedibile del processo e di calibratura dell'udienza .

Dunque allo stato delle cose il 49,1 % di rinvii per prosecuzione (cd. smistamento) è una prassi inevitabile ascrivibile solo in minima parte alla magistratura.

Come si evince dal prospetto che segue, più cause di rinvio rilevate dalla ricerca si riferiscono anche allo stesso processo, se le cause di rinvio indicate, sommate, danno il risultato del 120/100.

Se dunque - per quanto è comprensibile dal tenore un po' equivoco della sintesi della ricerca Eurispes diffusa dalle Camere Penali - i processi destinati naturalmente al rinvio (per prosecuzione) sono il 49,1% e sono compresi nella massa del 76,1% di quelli fissati in udienza, occorre calcolare il 49,1% sul 76,1% (=37,3%) e dedurre il 37,3% dal 76,1%. (=38,8%). Si perviene così alla conclusione che i processi rinviati per le altre restanti motivazioni (soggettive, processuali e per repliche o discussione) sono il 38,8% anziché il 76,1% dei processi fissati all'udienza e trattati con rito ordinario (escluse le direttissime che rappresentano una percentuale variabile tra il 5-10% rispetto ai processi complessivamente fissati in udienza).

Di conseguenza il numero dei processi trattati in dibattimento è il 61,2% di quelli fissati per la trattazione in udienza (cui vanno aggiunte le direttissime). Una parte di questi processi (il 30%) non viene rinviata e perviene a sentenza.

La ricerca afferma difatti che "i processi che ogni giorno si concludono in Italia con la pronunzia di una sentenza ammontano a meno del 30% del totale" (dei processi fissati). Se si tratta – come sembra - di un 30% rispetto al dato di riferimento comprensivo anche del 49,1% di processi fissati per lo "smistamento" ad altra udienza (che devono essere scorporati), in realtà si può affermare che perviene a sentenza mediamente una percentuale prossima al 60% dei processi fissati e non smistati ad altra udienza. E', dunque, all'interno del residuo 38,8% che operano le varie cause di rinvio (diverse dallo smistamento ad altra udienza). Rappresenta comunque una massa rilevante di spreco di energie giudiziarie prevalentemente determinata dai meccanismi processuali farraginosi, cui vanno aggiunti i rinvii determinati da mancanza di testimoni di cui al punto 2 che segue.

dati esposti nel rapporto Eurispes

NEL 76,1% DEI CASI SI FA LUOGO A RINVIO

Tali rinvii sono determinati dalle seguenti motivazioni (le relative percentuali sono riferite alla massa dei processi rinviati):

da MOTIVI SOGGETTIVI

1,0% rinvii per mutamento del giudice

2,6% rinvii per legittimo impedimento dell'imputato

5,0% rinvii dovuti al legittimo impedimento del difensore

12,4% rinvii per assenza del Giudice

1,5% rinvii per precarietà del Collegio

0,2% rinvii per assenza del PM titolare

6,8% rinvii per meri problemi tecnico-logistici [1]

29,5% totale parziale

da MOTIVI PROCESSUALI

6,6% rinvii per esigenze difensive

3,1% rinvii per carico del ruolo

9,4% rinvii per omessa o irregolare notifica all'imputato,

1,3% rinvii per omessa o irregolare notifica alla persona offesa

0,9% rinvii per omessa o irregolare notifica al difensore

4,2% rinvii per questioni processuali di competenza o incompatibilità[2]

1,7% rinvii per restituzione atti al PM

27,2% totale parziale

da MOTIVI ORGANIZZATIVI (eccessività di carico delle udienze)

2,2% rinvii per repliche

12,4% rinvii per discussione

49,1% rinvii per prosecuzione[3]

63,7 totale parziale

La somma totale delle cause di rinvio (di 29,5%+27,2%+63,7%) è di 120,4/100 anziché del 100% ! Probabilmente alcuni rinvii sono stati calcolati più volte con riferimento a diversi profili, anche se riferiti agli stessi processi.

2. LA ASSENZA DEI TESTIMONI

Una altra analisi eseguita dalla Eurispes riguarda il rinvio della istruttoria dibattimentale a processo incardinato, in relazione alla quale è stato rilevato il frequente rinvio per assenza dei testi

9.7 % rinvio per omessa citazione dei testi

44,3% rinvio per assenza dei testi [4]

54,0% totale rinvii per mancanza di testi

32,7% rinvii per prosecuzione della istruttoria

13,3% rinvii per integrazione della prova

100%

Si riferisce nel rapporto che tali percentuali riguardano solo il 39,2% delle udienze fissate per la trattazione istruttoria. Quanto incidano sul totale il rapporto non lo dice.

3. PERCENTUALE RITI ALTERNATIVI

Il dato Eurispes della percentuale di riti alternativi (9,4%) è contraddetto dai dati nazionali diffusi dal Ministero della Giustizia (disponibili sino al 2005) che indicano al 52% il totale dei riti alternativi e al 30% i casi di giudizio abbreviato dinanzi al GUP, sul totale dei processi trattati nel merito

Se i processi monitorati dall'Eurispes sono solo quelli celebrati con rito ordinario nella fase dibattimentale di primo grado presso i Tribunali, come si dice[5], se ne deve concludere che la indicazione di riti alternativi del 9,4% (5,4% con rito abbreviato, 4% con patteggiamento) si riferisce ai soli casi di applicazione della diminuente del rito abbreviato e di patteggiamento ottenuti in udienza dibattimentale, che è un dato di significato completamente diverso rispetto a quello che è stato esposto alla stampa (vedasi IL SOLE24ORE).

4. DURATA DI TRATTAZIONE

Riferisce il rapporto che la durata media della trattazione di un processo in udienza è :

18 minuti per i processi celebrati dinanzi al Giudice monocratico

52 minuti per quelli celebrati dinanzi al Collegio .

Questo dato è fuorviante perché alterato dall'inserimento nel calcolo anche dei processi rinviati (per smistamento ad altra udienza) senza essere stati minimamente trattati nel merito, nonché dai processi definiti per prescrizione (senza parte civile) o altra causa di improcedibilità, la cui presenza nei ruoli di udienza in alcuni tribunali spesso è altissima e serve solo per fare numero (di seguito è indicata nella misura del 15% dei processi definiti con sentenza).

5. ALTRI DATI DEL RAPPORTO EURISPES

Anche il rapporto tra processi collegiali e monocratici, indicato rispettivamente in 8% contro il 92% non corrisponde a quello dei dati ministeriali che è invece mediamente del 5% contro il 95% (con riferimento al periodo 2002/2005). La percentuale è difatti alterata dal fatto che non sono stati presi i n considerazioni i processi celebrati con rito direttissimo.

In caso di udienza conclusasi con rinvio ad altra udienza, i tempi del rinvio sono mediamente di 139 giorni per i processi svolti in aula con rito monocratico e di 117 giorni per quelli dibattuti in aula con rito collegiale.

I processi (senza distinzione di rito) con un solo imputato rappresentano il 77,5% del campione e quelli con più di un imputato il 22%.

Per il solo collegiale: nel 51,4% dei casi si è trattato di un unico imputato, nel 48,2% di più imputati

Per il solo monocratico: imputato unico 79,8%, più imputati 19,7%.

Il difensore fiduciario presta il consenso alla lettura degli atti in più della metà dei casi in cui esso è richiesto (55,7%), cui deve aggiungersi un ulteriore 10,2% di consensi alla utilizzazione di una parte degli atti. I difensori di ufficio, che – tra consenso totale (84,4%) e parziale (6,7%) – prestano il consenso alla lettura degli atti complessivamente in più di 9 casi su dieci. Ma non viene detto quale incidenza ha le richiesta di lettura di atti rispetto al totale dei processi trattati nel merito, posto che l'esperienza suggerisce che essa riguarda la quasi totalità dei processi al dibattimento con rito ordinario.

I casi di condanna in primo grado per l'imputato sono nel 60% dei casi, di assoluzione nel 21%, e di estinzione del reato nel restante 15% per cento dei casi[6].

6. PRESCRIZIONI

Ai dati fuorvianti del rapporto Eurispes si aggiungono quelli sulle prescrizioni pubblicati da Il Sole 24 Ore del 26 settembre 2008 con il titolo "Calano le prescrizioni, non pesa la ex Cirielli", a validazione delle dichiarazioni della deputata radicale Rita Bernardini rese al congresso delle Camere Penali: "Una situazione che fa giustizia delle polemiche sulle tattiche dilatorie dei difensori, Si tratta di prescrizioni maturate tutte sugli scaffali del PM per notizie di reato non infondate in una fase in cui l'attività difensiva è statisticamente pari a zero". Il quotidiano ha poi pubblicato una tabella intitolata "Il calo delle prescrizioni" che fa riferimento, invece, solo a quelle dichiarate dal GIP a seguito di richiesta del PM di decreto di archiviazione.

Un errore logico che dimostra la difficoltà di comprendere la complessità delle questioni giudiziarie:

a) tutte le autorità giudiziarie che abbiano in carico processi prescritti, oberate come sono di lavoro, applicando i criteri di priorità, evitano di trattare processi prescritti. Li accantonano per quanto possibile, sicché essi solo in minima parte danno luogo a provvedimenti di archiviazione o di improcedibilità;

b) i processi prescritti interessati dalla legge ex Cirielli sono in buona parte quelli già fissati al dibattimento, in quanto furono istruiti e mandati avanti dai PP.MM. perché si trattava di ipotesi che in base al precedente regime prescrizionale avrebbero potuto sostenere la durata media del processo. Quindi giacciono davanti al GUP o davanti al Tribunale del dibattimento, i quali ovviamente, in base alla nuova norma che lo consente, li mettono da parte per dare la precedenza ai processi che sono destinati ad avere un risultato processuale effettivo. E di conseguenza non sono rintracciabili nelle statistiche dei processi definiti per prescrizione.

Altra cosa sono dunque i processi prescrivibili, quelli già prescritti ma non ancora dichiarati e quelli che si andranno prescrivendo con il passare del tempo tenendo conto dei tempi delle varie fasi di giudizio a venire. Questi, contrariamente a quanto pensano l'on.le Bernardini e gli avvocati che l'applaudivano a Parma, sono destinati ad aumentare in misura esponenziale, non sono compresi nei numeri i processi definiti e sfuggono ad ogni statistica, essendo annegati nell'enorme numero dei processi pendenti.

Questi rilievi critici sul rapporto evidenziano una difficoltà a comprendere i caratteri di alcune complessità del processo penale, ma non levano alcuna rilevanza e significato alle conclusioni formulate dal presidente di Eurispes Gian Maria Fara: «Abbiamo pochi magistrati dove occorrerebbero e sovrabbondanza dove servono meno, sono scarse od obsolete le dotazioni tecniche e i mezzi a disposizione della giustizia di sovente sono arcaici rispetto all'evoluzione crescente delle tecnologie"

30.9.2008

Claudio Nunziata



[1] Indisponibilità dell'aula, indisponibilità del trascrittore, assenza dell'interprete di lingua straniera, mancanza del fascicolo del PM o del dibattimento

[2] 20,6% astensione/incompatibilità, 25% incompetenza, 47,2% riunione ad altro p.p.

[3] I rinvii alla prima udienza per questioni preliminari e/o sola ammissione delle prove ammontano al 27% del totale.

[4] In quasi il 40% dei casi il teste che, pur citato, non compare, appartiene alla Polizia giudiziaria

[5] Nella ricerca si precisa che la ricerca è stata limitata a 12.918 processi trattati con rito ordinario, presi a campione in 27 tribunali, con esclusione dei processi celebrati con rito direttissimo e gli incidenti di esecuzione.

[6] Le sentenze di proscioglimento per estinzione del reato, ben il 45,5% di esse è avvenuto per prescrizione del reato, il 32,8% per remissione di querela, mentre solo l'8,6% per oblazione

martedì 9 settembre 2008

Il principio di legalità e la fuga continua dalle regole

IL PRINCIPIO DI LEGALITA’ E LA FUGA CONTINUA DALLE REGOLE
intervento di Claudio Nunziata
Bologna, 11 settembre 2008

seminario della Cgil “I vincoli del patto costituzionale di fronte alle trasformazioni economiche e sociali. Le responsabilità della Politica e quelle del Sindacato"

La storia non ci regala sempre condizioni di progresso, eppure con il cambiamento dobbiamo misurarci. Dovremmo trovarci nelle condizioni di vedere affermati nuovi diritti ed invece siamo costretti a difendere la Costituzione da continui rischi di svuotamento.
I nuovi cultori del diritto forse inventeranno la categoria delle norme costituzionali “desuete”, categoria speculare a quella delle norme programmatiche creata negli anni ’50 per impedirne l’attuazione. Ma le pratiche di svuotamento sono tante.
Inutile opporsi ai fattori oggettivi di cambiamento che presentano aspetti di rigidità insuperabili, ma dobbiamo opporci allo svuotamento della Costituzione.
A fronte delle complessità dei processi di cambiamento è necessaria una analisi del loro reale significato, spesso difficile da decodificare da parte di un profano, ma anche da parte di quei politici troppo legati agli schemi ideologici sui quali hanno costruito la propria immagine.
Bisogna individuare i caratteri delle rigidità del cambiamento, verificare se rischiano di alterare le condizioni dei lavoratori, verificare se essi non possano essere governati ed in quale misura ed a quali costi possano essere contrastati.
Ed a fronte dei mutamenti sui quali non è possibile intervenire occorre studiare regole per attutirne gli effetti e renderli conformi ai principi costituzionali.
L’equilibrio tra rigidità divergenti può essere difficile, ma con questa esigenza bisogna misurarsi.
I parametri di riferimento di questo equilibrio sono i principi costituzionali che pongono il lavoro come tema fondante della Repubblica (art.1) e come ineludibili le sue garanzie (artt. 4 e 35-40) e la tutela ancora più elevata stabilita dai trattati europei con la affermazione del diritto del lavoratori ad operare anche per il miglioramento delle condizioni di vita.
Il Sindacato, in quanto soggetto collettivo di grandi dimensioni presente in tutti i settori della società, ha sotto questo profilo grandi potenzialità, in quanto è nelle condizioni di attivare sensori in ogni settore e percepire i mutamenti in atto. Può dunque essere in grado di cogliere gli indicatori significativi dei mutamenti strutturali.
E’ stato importante il ruolo che esso ha svolto - quando le condizioni politiche lo hanno consentito - affiancando al sistema della contrattazione quello della concertazione. Forse c’è ancora spazio per un impegno del sindacato, sganciato da fasi politiche contingenti.
Occorre prendere atto che pesano sul sistema paese condizioni di illegalità diffusa e di alterazione del quadro dei rapporti di forza tra i poteri dello Stato che accentuano i caratteri di squilibrio a danno dei lavoratori; occorre prendere atto che attraverso operazioni di falsificazione e mistificazione pesano costantemente sui lavoratori i rischi di una falsa rappresentazione delle complessità e che questi insidiano costantemente le scelte politiche che incidono sulla loro condizione.
Vi è una relazione diretta tra questi aspetti e processo di svuotamento dei principi costituzionali.
La costituzione materiale cambia anche attraverso la introduzione nel sistema di una serie di comportamenti diffusi accettati e praticati: la introduzione di una serie di prassi illegali, le interferenze dell’economia legale con un vasto sistema economico illecito, la evasione fiscale diffusa e tutto il network di protezioni istituzionali che favorisce questi comportamenti.
Il corollario sono una serie di luoghi comuni secondo i quali: il pubblico è inefficienza, gli statali sono fannulloni, privato è bello, l’alleggerimento fiscale porta progresso, i giudici violano sistematicamente la privacy dei cittadini, il dibattito politico è la dimostrazione di inaffidabilità di un partito. Su questi ed altri luoghi comuni si è oramai formata una cd opinione pubblica diffusa con la grancassa continua di giornali e tv che li considerano la base condivisa sulla quale si fonda qualsiasi ragionamento.
Vi sono vari piani per tentare di invertire la tendenza in atto: la pressione politica, la concertazione, il potenziamento di una informazione che contrasti i luoghi comuni. Ma soprattutto la legalità deve tornare ad essere uno dei parametri fondamentali della vita civile, deve entrare nei cromosomi del tessuto sociale. Deve essere posta alla base di una grande rivoluzione culturale.
Ma vi sono nel sistema anche altri meccanismi: la battaglia instancabile contro i poteri sommersi che alterano gli equilibri del sistema democratico, la denunzia costante delle prassi illegali che di fatto svuotano di contenuto le leggi; il ricorso costante alla magistratura ed alla eccezione di illegittimità costituzionale, tutte le volte che se ne verifichi la occasione.
Per contrastare il passaggio dal livello della illegalità diffusa a quello dei poteri sommersi, è necessario rafforzare i poteri legali, far vivere una reale partecipazione dei cittadini alla politica, non lasciare solo allo Stato ed alle iniziative dei singoli il contrasto delle illegalità diffuse.
A tale scopo sono certamente utili e necessarie le manifestazioni contro la criminalità organizzata. Ma forse c’è bisogno di qualcosa di più. C’è bisogno di un sostegno convinto a tutte le iniziative di denunzia di illegalità allorché esse presentino una particolare attitudine ad alimentare comportamenti diffusi che svuotano l’agibilità dei diritti.
Se il parlamento riuscirà a mettere il bavaglio ai PP.MM. spostando sulla polizia giudiziaria tutto l’onere della ricerca delle notizie di reato – con il forte rischio di interferenze governative – occorrerà potenziare l’efficacia delle di denunzie dei singoli cittadini.
I singoli possono non avere la forza economica per sostenerle sino in fondo una battaglia giudiziaria e possono essere esposti a ritorsioni, minacce, trasferimenti e mobbing.
E, difatti, di pari passo con il potere della criminalità organizzata e della corruzione, si è creata nel paese una sorta di cultura mafiosa che travalica di molto i territori sottoposti al controllo della criminalità organizzata. Questa cultura alimenta le intimidazioni e scoraggia le iniziative di contrasto. Avvilisce il potenziale di controllo diffuso che possono porre in atto i cittadini che è il più efficace strumento che può assicurare il mantenimento di elevati standard di legalità.
Occorre, dunque, un sostegno “politico” al contrasto delle manifestazioni di illegalità diffusa. A prescindere dall’impegno dello Stato, delle forze di polizia e delle Procure - che da sole non ce la fanno - occorre che siano create e diventino veramente funzionali delle strutture rivolte alla analisi sistematica di quanto di illegale tende a trasformare il paese ed a svuotare sistematicamente i diritti dei cittadini.
Un programma televisivo come “Report” o iniziative di denunzia di qualche altro giornale, il coraggio di qualche associazione o cittadino, la denunzia del ferroviere Dante De Angelis non possono essere lasciate nell’isolamento. Occorre costantemente un sostegno che dia forza ad esse, e non tanto per il merito delle tesi sostenute, quanto per l’affermazione del diritto alla verificabilità di qualsiasi notizia abbia un risvolto di interesse pubblico.
Più sarà forte questo sostegno, più aumenterà automaticamente il suo effetto deterrente e andrà riducendosi la protervia dell’illegalità.
Occorrerà forse anche elaborare una proposta di legge a garanzia di chi chiede legalità contro le ritorsioni mafiose. Ed anche contro il mobbing cui spesso sono esposti i lavoratori che mostrano spirito critico, pratica oramai diffusa attraverso la quale una classe dirigente, spesso inadeguata, si difende dal controllo che viene eseguito all’interno dei luoghi di lavoro.
In questo paese, oltre che una caduta generale del livello di legalità e correttezza, vi è una crisi profonda della classe dirigente. Vi è una classe dirigente priva di cultura dell’organizzazione, spesso incapace di interpretare i processi del cambiamento, di rendere più funzionali i sistemi complessi.
Certo, chi ha compiti di responsabilità deve essere in grado di assumere decisioni, ma anche di misurarsi con il contributo critico e la richiesta di correttezza e di legalità, che devono tornare ad essere i caratteri ineludibili di una classe dirigente.
Certamente occorre una continua evoluzione nella formazione delle leggi, un continuo aggiornamento delle regole, ma anche un circuito virtuoso di controlli che regoli il sistema impedendo ad uomini e regole di perdere di vista i principi ed il contatto con la realtà.
E il controllo critico dei cittadini e i principi costituzionali devono sempre fungere da pompa di valori per vivificare il senso delle regole.
Da quando si è abbandonato il criterio della indipendenza della dirigenza pubblica dal potere politico e si è aperta la strada allo spool system anche di secondo livello, si è accentuato il decadimento della classe dirigente, che - protetta da un sistema politico che troppo spesso ha proceduto a nomine senza ricorrere al criterio delle competenze - è di fatto svincolata ancor di più da ogni forma di controllo.
La storia della democrazia italiana fornisce la dimostrazione palese di come, dopo il terrorismo e le stragi politiche, si siano evoluti i meccanismi del condizionamento sino al punto da ipotizzare di annullare anche ogni forma di conoscibilità e verificabilità da parte dell’opinione pubblica di tutto ciò che può avere una rilevanza sulla correttezza pubblica.
Queste azioni dirette ad ostacolare l’interpretazione della realtà in determinate condizioni celano talvolta la stessa carica eversiva che in contesti diversi si esprimeva attraverso gli atti di terrorismo indiscriminato.
Oggi la medesima strategia si attua con effetti similari attraverso le strade insidiose della manipolazione dell’opinione pubblica, della falsificazione, ed anche dell’avvilimento di tutti gli organismi di controllo, favoriti dalla concentrazione dei mezzi di informazione in poche mani. Ma anche spostando l’attenzione dei cittadini verso determinate tematiche, con il riduzionismo, con la superficialità, e comunque con il tentativo di prospettare la semplificazione della complessità, che è tipico di chi ha una cultura autoritaria.
Per potere bypassare gli ostacoli creati dalle regole del diritto, si sono diffusi nel nostro paese, come in un sistema feudale, centri di potere alternativi a quelli istituzionali che hanno creato una rete di interrelazioni che agevola le possibilità di condizionamento o di ritorsione.
L'intolleranza verso le regole del sistema democratico ha favorito la formazione di aggregazioni segrete che hanno fatto passare i meccanismi di formazione dei processi decisionali per strade diverse da quelle legali.
Ciò ha consentito da una parte il rafforzamento della economia illegale attraverso il sistema della corruzione dei centri di potere, dall'altra l'emarginazione progressiva e mascherata di coloro che si frapponevano a questo disegno.
E quando queste situazioni continuano a non essere contrastate, si determina la legittimazione della coesistenza, insieme al potere dello Stato, di centri di potere paralleli ed il prevalere della tentazione di lasciare che ciascuno di questi poteri regolamenti in modo autonomo i propri ambiti di influenza.
Così si sono create nuove categorie sociali caratterizzate da ben precisi interessi:
una vasta area prettamente criminale con distinti livelli, dominanti ed esecutivi, tenuti insieme da ben precise caratterizzazioni culturali;
una area di professionisti, commercianti ed imprenditori tenuti insieme dal collante dell’evasione tributaria;
un vasto ceto che vive sulle rendite finanziarie e sulla vocazione di erodere il risparmio dei lavoratori,
un sottoproletariato privo di rappresentanza,
un vasto ceto medio, formato da operai ed impiegati, a rischio di progressivo impoverimento e perdita della propria identità sociale.
Una società così strutturata non può avere futuro e non può aspirare ad alcuna forma di cambiamento verso condizioni di progresso a livello europeo.
E mediante messaggi e slogans suggestivi di varia natura, si forma intorno a questi ceti anche una cultura del consenso sicché coloro che svolgono funzioni di controllo di legalità vengono di fatto posti nelle condizioni di non agire. Se lo fanno, vengono aggrediti da certa stampa e da schiere di parlamentari che se ne servono.
Ed è possibile immaginare la condizione in cui vengono a trovarsi quei pubblici funzionari che non hanno le stesse tutele dei magistrati. Nella migliore delle ipotesi, se mostrano determinazione, si procede nei loro confronti al trasferimento o all’attribuzione di funzioni che non possano creare dei problemi.
Tutto questo genera perdita di fiducia e la mancanza di fiducia porta al totalitarismo e – come icasticlamente ha ricordato Edgard Morin - alla necrotizzazione nella società, alla degradazione della società in massa, in folla di persone slegate tra loro.
Solo una società trasparente, che reagisce, potrà ripristinare un clima di piena fiducia nei confronti dei meccanismi della politica. E più nella società si ripristinerà la fiducia, più questa tenderà a svilupparsi.
Servendosi degli strumenti del diritto è, dunque, indispensabile distruggere, il potere che l’illegalità ha nella società italiana. Una azione del genere ha tale portata innovativa da realizzare di fatto una vera e propria rivoluzione, in grado di rivitalizzare radicalmente la possibilità di sviluppo dei diritti e di ripristinare la fiducia nello Stato.
Credo che il sindacato possa diventare un sindacato dei diritti in senso più ampio, dove la tutela del posto di lavoro e del salario non possano essere considerati disgiunti da tutto ciò che influisce sulle condizioni di vita. E ciò per una ragione molto semplice: perché oggi non solo si tende a svuotare sempre di più la tutela del posto di lavoro, ma anche a realizzare attraverso prassi deboli uno svuotamento anche di quel complesso di diritti di cittadinanza che se singolarmente azionati rimangono deboli, mentre se esercitati collettivamente possono diventare forti.
Il sindacato con la sua organizzazione deve supportare i lavoratori in questa esigenza di interpretazione delle complessità, fornendo strumenti di analisi e di decodificazione di cui il singolo non può disporre. Può avviare un circuito virtuoso per il controllo diffuso di legalità, identificando tutte quelle situazioni che prescindendo dai casi singoli si atteggiano come prassi sistematiche di illegalità produttive di distorsioni sociali.
Nella Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, vengono definiti come obiettivi l’allargamento dei diritti sindacali a tutto ciò che attiene al “miglioramento delle condizioni di vita…al dialogo sociale…al progresso….alla riduzione della emarginazione” . Ne consegue che i lavoratori ed il sindacato diventano titolari anche di un diritto ad esercitare un controllo diffuso affinché questi obiettivi si traducano in realtà.
D’altra parte se viene riconosciuto il diritto di sciopero, che rappresenta il diritto a reagire a difesa della propria condizione, il diritto di denunzia può a maggior ragione essere considerato una forma attenuata di reazione dei lavoratori.
L’attenzione dovrà essere quella di incanalare questo controllo diffuso in forme lecite e non dispersive. Preparare i lavoratori ad esercitarlo in forme adeguate, ma soprattutto metabolizzarlo attraverso un processo di razionalizzazione che trasformi i temi personali in temi generali.
Il sistema Italia potrà migliorare solo se sarà stimolato da una capacità critica costante, se si attrezzerà per avere la capacità di resistere alle critiche rivolte a una classe dirigente che si è dimostrata spesso non all’altezza della situazione ed incapace di adeguare le strutture organizzative ai mutamenti del sistema economico, sociale ed alla evoluzione tecnologica.
Ma questo controllo critico diffuso – in una fase di grave avvilimento della capacità di denunzia dei media – potrà essere esercitato in misura adeguata solo se saranno assicurare delle tutele adeguate.
Se non si riuscirà ad includere nel sistema delle apposite norme di tutela, occorrerà comunque predisporre nei meccanismi organizzativi affinché ciò possa avvenire nelle forme più efficaci possibili e spingere sul piano della evoluzione giurisprudenziale e dell’applicazione delle garanzie costituzionali.
Il sindacato ha un enorme vantaggio, ha una ramificazione estremamente diffusa che consente di percepire e cogliere il senso delle disfunzioni anche all’interno delle strutture ove le stesse si verificano. Ed allora occorre che questo potenziale informativo sia utilizzato per stigmatizzare tutte quelle pratiche di approfittamento che avviano processi di illegalità sistematica.
Ci si potrà chiedere se questo fa parte del ruolo del sindacato. Io penso di si e penso anche che sarebbe utile che il sindacato periodicamente intavolasse – e non solo a livello generico in sede nazionale, ma intervenendo sul concreto nelle sedi periferisce - tavoli di confronto al fine di indurre le PP.AA. a funzionare secondo standard di alta qualità quali competono ad un paese moderno.
Senza che alcun settore ne resti escluso. Ad esempio il sistema di legalità ha vitale bisogno di un servizio giustizia che funzioni. Il dibattito sulla giustizia è intossicato dalle esigenze personali del premier. In questo clima il ceto politico non ha la forza di proporre la riduzione dei casi di impugnazione delle sentenze e un radicale adeguamento della dirigenza giudiziaria alla cultura della organizzazione, che sono gli unici rimedi concreti in grado di restituire vitalità al sistema giustizia. Il Sindacato può denunziare a gran voce questa contraddizione, come può richiedere con forza ai partiti democratici che gli strumenti di partecipazione politica diventino realmente effettivi.
Un supporto alla decodificazione di una realtà complessa e una azione di denunzia civile costante possono ridare vitalità ai principi costituzionali e fornire una grande prospettiva di incremento di importanza al ruolo del Sindacato.

Claudio Nunziata
claudio.nunziata@fastwebnet.it

venerdì 1 agosto 2008

Quel filo eversivo che lega la strage di Bologna al sequestro Moro

La strage per antonomasia, quella con 85 vittime civili in tempo di pace, richiede, questa volta, in coincidenza con i 30 anni dall'uccisione di Aldo Moro, una riflessione più penetrante sulle difficoltà del processo democratico iniziato nel dopoguerra. Dobbiamo chiederci seriamente, tutti, se i due attentati siano stati entrambi parte di una medesima strategia.
La lettura comparata di ciò che è avvenuto in Italia dal 1969 al 1993 consente di cogliere strategie convergenti dietro i più rilevanti delitti mafiosi e politici. Tutti insieme hanno obiettivamente corrisposto alla esigenza, richiesta da equilibri internazionali, di impedire l'espansione del comunismo praticabile attraverso le vie democratiche: la mafia, le BR e i neofascisti indotti ed interessati a sporcarsi direttamente le mani; la segmentazione dei livelli decisionali meccanismo di infiltrazione e strumentalizzazione.
E' pacifico che servizi segreti deviati, statunitensi ed italiani, la loggia massonica riservata P2 ed alcuni gruppi politici e finanziari, riconducibili alla stessa loggia massonica, hanno operato nel corso di questi sessant'anni per frenare il processo democratico, ricorrendo agli strumenti più spregiudicati, e per occultarne poi le responsabilità. Tutte le componenti, resistenziali o meno, che non si erano riconosciute nel patto costituzionale e nel potenziale di espansione della democrazia che esso conteneva, hanno ricercato occasioni di coordinamento per contrastarla e si sono via via strutturati nel corso del tempo sino a creare un monumentale cemento ideologico.

Quando nel 1969 arrivò Nixon alla presidenza statunitense, l'incubo degli Usa non era più la presa del potere violenta da parte del Pci, ma il solo fatto che questo partito potesse solo assumere un ruolo più significativo ed entrare nell'area di governo.

La dottrina politica posta a sostegno di queste iniziative fu esplicitata nel marzo 1970 nel field manual top secret destinato alle forze speciali dell'esercito americano intitolato "Operazioni di stabilità e servizi segreti" firmato dal generale WestMoreland. In esso è contenuta la direttiva di "destabilizzare ai fini di stabilizzare" e la indicazione di come ricorrere ad "operazioni speciali" per impedire l'accesso del partito comunista al governo dei paesi europei. Una copia di tale manuale fu trovata nelle mani della figlia di Gelli insieme al Piano di Rinascita Democratica ed il Memorandum sulla situazione politica italiana. Un ritrovamento poco occasionale che è stato interpretato come un messaggio, come dire "ci sono cause di forza maggiore e protezioni internazionali che hanno legittimato la mia condotta". Sostanzialmente la stessa cosa che sembra ripetere continuamente Cossiga, nella illusione di dare in questo modo una legittimazione alla sua creatura, Gladio, che egli sostiene essere composta da partigiani, dimenticando di precisare che si trattava per la verità di fascisti travestiti, come ci testimonia Vincenzo Vinciguerra, l'autore della strage di Peteano, uno dei pochi che – rifuggendo la qualifica di pentito e qualificatosi "spirito libero" – si è assunto l'iniziativa di fornire un contributo significativo alla ricerca della verità. Giovanni Fanelli, segretario della loggia P2 riferì al pm Sica il 24.5.1981: "Non avevo motivo di dubitare che Gelli intrattenesse rapporti con Andreotti e con Cossiga, ciò so con certezza perché accompagnavo personalmente il Gelli agli appuntamenti".

Nel field manual era scritto: ""i servizi dell'esercito USA dovrebbero cercare di penetrare l'insorgenza mediante agenti in missioni particolare e speciali.…per lanciare azioni violente o non violente , a seconda delle circostanze […]. Nei casi in cui l'infiltrazione da parte di tali agenti nel gruppo guida dell'insorgenza non sia stata efficacemente attuata, si possono ottenere gli effetti summenzionati utilizzando le organizzazioni di estrema sinistra."

All'inizio degli anni '70 il vice capo della stazione della CIA a Roma, Ted Shackley, organizzò presso l'ambasciata USA a Roma un incontro tra Alexander Haig e Licio Gelli. Secondo l'ex agente segreto Searchlight in quella riunione si sarebbe stabilito di destinare finanziamenti a Gladio. Ai primi dell'agosto 1970 l'ambasciata USA a Roma arrivò a ipotizzare una "soluzione non costituzionale" . Nella notte tra il 7 ed 8 dicembre vi fu il tentativo di golpe Borghese, replicato con più vasti coinvolgimenti nell'agosto del 1974.

Edgardo Sogno nel sua libro-intervista (Sogno-Cazzullo, Testamento di un anticomunista, Mondatori) ricorda: "Nel luglio del '74 il capo dei servizi americani per l'Italia mi disse che gli Stati Uniti avrebbero appoggiato qualsiasi iniziativa tendente a tenere lontani o ad allontanare i comunisti dal governo. E aggiunse che se, come sembrava, la situazione italiana avesse preso nei mesi successivi una piega cilena - il suo governo avrebbe approvato l'attuazione del nostro progetto…". Il 4 agosto si fu la strage del treno Italicus, che seguiva di due mesi quella di Piazza della Loggia a Brescia, nel contesto di centinaia di attentati di cui una decina a tratte ferroviarie.

Ma la democrazia americana, oltre alle interferenze di alcuni suoi apparati, ci ha regalato anche la scandalo Watergate che portò alle dimissioni di Nixon l'8.8.1974 e, probabilmente, determinò in Italia il fallimento del più insidioso tentativo eversivo intorno al quale avevano lavorato nella primavera del 1974 Valerio Borghese, Carlo Fumagalli e numerosi generali con l'obiettivo di elevare a capo del governo Rodolfo Pacciardi.

Una ossessione quella degli Usa che rimase nel tempo se nelle sue memorie l'ambasciatore Usa in Italia dal 1977 al 1981 Richard Gardner (Mission Italy, Mondatori, 2004) afferma che il suo governo era ancora preoccupato per l'avanzata elettorale del PCI e che occorreva agire per fermarla.

Il 16 marzo 1978 fu portato ad esecuzione il colpo più spregiudicato e più diretto contro la democrazia: il sequestro del segretario della DC Aldo Moro nel momento in cui si recava in Parlamento per la fiducia al primo governo con l'appoggio diretto del PCI. La desecretazione di molti documenti statunitensi oggi consente di dare molte conferme a questo pezzo di storia italiana, ma molte più ne consentirebbe se non ne fosse stato escluso l'affaire Moro.

Scrisse Mino Pecorelli sul numero del 2 maggio 1978 di OP, in pieno sequestro Moro:

"L'agguato di via Fani porta in segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni in un paese industriale, integrato nel sistema occidentale. L'obiettivo primario è senz'altro quello di allontanare il partito comunista dall'area del potere nel momento in cui si accinge all'ultimo balzo, alla diretta partecipazione al governo del paese. E' un fatto che si vuole che ciò non accada. Perché è comunque interesse delle due superpotenze mondiali mortificare l'ascesa del PCI, cioè del leader dell'eurocomunismo, del comunismo che aspira a diventare democratico e democraticamente guidare un paese industrializzato. Ciò non è gradito agli americani…Ancor meno è gradito ai sovietici…ancora una volta la logica di Yalta è passata sulle teste delle potenze minori. E' Yalta che ha deciso via Mario Fani." Gli uomini della Banda della Magliana ci raccontano che fu ucciso per conto di Pippo Calò per mano di Massimo Carminati, sodale di Valerio Fioravanti sin dai tempi dei banchi di scuola, ancorché assolto (per motivi prettamente processuali) dalla Corte di Perugia.

Ricorda l'ex dirigente democristiano Giovanni Galloni che due settimane prima della strage di via Fani Moro gli aveva espresso una preoccupazione: "La cosa di cui sono molto preoccupato è questa : io so che i servizi segreti americani ed israeliani hanno degli infiltrati nelle Brigate Rosse, però questi servizi non hanno mai fatto comunicazione ai nostri servizi e allo Stato, nonostante le loro indicazioni potrebbero essere utili per la ricerca dei covi."

Il gen. Gian Adelio Maletti aveva già dichiarato in una intervista alla rivista Tempo del 20.6.1976:

"Fino a quel momento [1975] i brigatisti non avevano ancora sparato, se non costretti…Questa nuova organizzazione partiva con il proposito esplicito di sparare…addestravano o assoldavano tiratori per sparare alle gambe…arruolavano terroristi da tutte le parti, e i mandanti restavano nell'ombra, ma non direi che si potessero definire di sinistra. Nel complesso era gente diversa, anche per estrazione sociale e culturale, dalle primitive brigate rosse…informammo il Viminale…spettava all'antiterrorismo agire". Ma l'antiterrorismo di Emilio Santillo proprio allora fu sciolto ed il gen. Alberto Dalla Chiesa destinato ad altro incarico.

La strage di Bologna, due anni dopo l'omicidio Moro, realizzò oggettivamente la messa a punto di quel disegno di destabilizzazione.

Poi il potere mafioso, cui spesso si era ricorso, prese coscienza del proprio potenziale di ricatto e dettò le regole dei nuovi rapporti di forza. Il confronto diretto tra mafiosi e potere politico raggiunge l'acme con l'eliminazione di Piersanti Mattarella e Salvo Lima. Ancora un attentato fece saltare i binari della tratta ferroviaria Firenze-Bologna nel luglio 1983 a pochi giorni dal giuramento del primo governo a guida socialista. Poi la strage del rapido 904 del 23.12.1984 e la strage dei Geogofili del 1993 per le quali sono stati condannati in via definitiva rispettivamente i mafiosi Pippo Calò e Totò Riina. Il tutto inframmezzato dagli omicidi di mafia, l'eliminazione di giudici, di funzionari di polizia e giornalisti, affinché fosse chiaro quale dovesse essere il livello di legalità nel paese.

Non è certo una storia propria di un paese democratico questa. I livelli pur fisiologici di criminalità avevano raggiunto una intensità inusitata e, soprattutto, sono stati diretti non tanto a colpire le persone, quanto piuttosto - e come obiettivo prioritario - a condizionare la democrazia. E dal 1994 la violenza politica sembra finalmente bandita, o comunque ridotta in termini molto contenuti, con almeno una apparenza di normalità democratica. Dopo questi traumi sono, però, le modalità di svolgimento della vita politica che sono profondamente cambiate.

La gestione dei 55 giorni del sequestro Moro era stata caratterizzata da rilevanti anomalie: la quasi completa esclusione della magistratura da ogni circuito informativo e di indagine; la concentrazione di ogni iniziativa nei comitati di crisi creati dal Ministro dell'Interno Cossiga che vi aveva inserito persone quasi esclusivamente facenti parte della P2.

La conseguenza fu che, allorché nella lettera riservata a Cossiga, Moro avanzò l'ipotesi di un suo cedimento alle pressioni dei brigatisti e tutti gli addetti ai lavori compresero che queste si riferivano alla organizzazione segreta Gladio, Cossiga fece comprendere ai membri del comitato di crisi che poteva essere inevitabile che il sequestro si concludesse con la morte di Moro. Lo sostiene il principale esperto di tale comitato, Steve Pieczenick, che era stato selezionato da Cossiga tra i collaboratori del Dipartimento di Stato statunitense, il quale in alcune sue prime dichiarazioni aveva persino accusato esplicitamente Cossiga di avere con determinazione perseguito l'obiettivo della morte di Moro (che è cosa diversa dall'essere stato contrario alla trattativa) e di avere veicolato al di fuori del comitato notizie riservate che ne danneggiarono l'azione, riducendo fortemente la possibilità di pervenire alla liberazione di Moro che, a suo giudizio, sarebbe stata possibile senza cedimento dello Stato. Dichiarazioni inquietanti che richiederebbero qualche approfondimento, non una superficiale smentita.

"Sono i fantasmi che ossessionano Francesco Cossiga e tutti quei politici italiani impegnati a chiudere tutti i varchi dai quali qualcosa del passato possa riversarsi nel presente" ha commentato Vincenzo Vinciguerra. Questa ossessione è stata reiterata recentemente in un'intervista al Corriere della Sera dell'8.7.2008 con la fuorviante affermazione secondo cui Gladio era composta da ex partigiani e ricavandone a contrario la presunzione della sua piena legittimazione. E, con un parallelo inquietante, Cossiga si dice convinto che furono i palestinesi a cagionare l'esplosione della stazione di Bologna ("La strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della resistenza palestinese").

Si tratta delle valutazioni di una persona, alle cui singolari ed immotivate posizioni è difficile attribuire una qualche importanza, posto che nella intervista a Riccardo Bocca ("Tutta un'altra strage", BUR 2007) egli sostiene di esserci arrivato sulla base di impressioni personali sue e di altri e di aver avuto una conoscenza solo riassuntiva del processo. Per i rapporti che gli si attribuisce di avere intrattenuto con Gelli (condannato per depistaggio), per la posizione assunte in relazione a Gladio, per quella assunta sulla Loggia P2, per i reiterati attacchi ai giudici di Bologna e per le inquietanti dichiarazioni di Steve Pieczenick, Cossiga non ha dimostrato di essere persona in posizione di assoluto distacco per accreditare come obiettive le proprie valutazioni. L'effetto è quello di una ennesima operazione di depistaggio, questa volta della memoria, calata sulla scia di quelle che l'hanno preceduta.

Sogno riferisce nelle sue memorie: "I gladiatori veri avevano il compito di predisporre il tessuto d'appoggio per le operazioni attive" che sarebbero state svolte dalle FF.AA. E fu proprio lui nel 1974 a prendere contatto con le alte gerarchie delle FF.AA. per verificarne la disponibilità rispetto alle iniziative che allora si agitavano in vari ambienti istituzionali. Ha anche riconosciuto di avere collaborato con Roberto Dotti, fuoriuscito dal PCI, che diventerà suo collaboratore al posto di Cavallo e poi, secondo recenti ricerche, assumerà il ruolo di provocatore agendo di concerto con i livelli più elevati delle BR.

Quattro cartelle di Cavallo risalenti a metà degli anni '70 chiariscono la strategia: "Solo le FF.AA. possono affronatare e risolvere la crisi politica, economica morale, e sociale dello Stato….a causa di una classe politica corrotta ed incapace…è venuta a mancare ogni base di legittimità ai massimi esponenti dello Stato e del Governo….Il "colpo" va organizzato con criteri del blitzkrieg; sabato, durante le ferie, con le fabbriche chiuse ancora per due settimane e le masse disperse in villeggiatura".

In un'intervista pubblicata su Panorama del 16.12.1990 Sogno sostenne che per dissuadere il PCI era necessario creare il complesso cileno: cioè era bene che i comunisti sapessero che ci sarebbe stata una risposta. Già nella primavera del 1972 aveva depositato presso un notaio di Milano un giuramento firmato da venti ufficiali dell'Esercito che si impegnavano tra l'altro a "compiere personalmente e singolarmente l'esecuzione capitale degli esponenti politici di partiti democratici responsabili di collaborazionismo con nemici della democrazia e di tradimento verso le libere istituzioni". Quel che fecero le BR con Aldo Moro. Gli anni tra il '74 ed il '78 avevano segnato proprio il passaggio alla attuazione di quel progetto politico contro il quale Sogno ed il suo partito trasversale si erano tanto battuti.

Sollecitato da una apposita domanda dell'intervistatore, egli non negò neanche il ruolo stabilizzante svolto dal terrorismo, ma finse di ignorare – come tanti altri - il ruolo di collante svolto dalle sue iniziative e da quelle forme di terrorismo, qualificato come "indolore", che egli stesso ammette di avere suscitato e condiviso.

A seguito delle ammissioni di Sogno assumono un aspetto lugubre le dichiarazioni di Silvio Berlusconi apparse su "Il Giornale" del 18.1.2000 in risposta all'appello rivoltogli da Edgardo Sogno: "Noi raccogliamo l' appello di Sogno che ci chiede di scegliere a favore del cambiamento e non della conservazione dell' esistente. La nostra risposta e' che Forza Italia e' nata come forza di cambiamento e che non può che essere forza di riforma radicale della societa' e delle istituzioni". "Edgardo Sogno - prosegue Berlusconi - e' uno degli uomini ingiustamente perseguitato che in Italia merita maggior rispetto e considerazione". E gli riservò i funerali di Stato. Cossiga li aveva già riservati qualche anno prima a Rodolfo Pacciardi.

giovedì 31 luglio 2008

Il mondo di oggi, il futuro: le rivoluzioni e le libertà.

di Claudio Nunziata. Intervengono Edgar Morin, Giorgio Celli e Claudio Nunziata - Sala Gramsci, lunedì 17 Settembre 2007 h 21.00

“Le magnifìche sorti e progressive” della storia sono oramai un mito. Morin ci avverte che non potrà esservi uno sviluppo lineare, che insieme ai fattori positivi si accentuano anche quelli negativi e che attraverso le reciproche interferenze di essi, della evoluzione scientifica e dei disastri ecologici ci potremo trovare di fronte a situazioni totalmente nuove. Il rimedio è attrezzarsi ad affrontare l’imprevisto.
Invita ad affrontare il futuro con l’entusiasmo dell’azione politica e con la forza del senso critico, in modo laico, libero da costruzioni fideistiche e da dogmi partitici al fine di ricercare il senso di una umanità condivisa.
Anche se in conseguenza di un auspicabile progresso economico e tecnologico nel prossimo futuro le risorse non fossero più concentrate in poche mani e in pochi paesi, molti segnali inducono comunque a dubitare che di pari passo si svilupperebbero anche i paradigmi fondamentali della cultura (solidarietà, tolleranza, democrazia, eguaglianza).
E se nel 2047 in un mondo, che sarà di fatto planetarizzato, vi saranno ancora situazioni di arretratezza insopportabile, allora vi saranno anche situazioni di approfittamento probabilmente accompagnate da dittature, guerre e ribellioni violente. Se non avverrà un rinnovamento diffuso a livello dei principi, non si riuscirà a contenere le tensioni sociali, e gli eventi tragici continueranno a far parte della storia dell’uomo. Bisognerà solo sperare che questi si sviluppino nei limiti delle istanze che li hanno generati e che i loro effetti non si espandano a livello globale. Ma ciò sarà possibile solo se i paesi ricchi non tenteranno ancora di sfruttare in modo predatorio e totalizzante le proprie posizioni egemoniche.
L’aumento esponenziale delle migrazioni e la conseguente compresenza sullo stesso territorio di persone con storie e culture diverse sono destinati a generare problemi di comunicazione e di incomprensione reciproca. Nelle società culturalmente evolute vengono messi a punto e probabilmente saranno affinati meccanismi per affrontare le tensioni sociali che ne conseguono, in una prospettiva di regolazione dei rapporti tra gli individui e gli individui e lo Stato volta a dare sempre maggiore rilievo all’azione politica, alla mediazione sociale ed alla cultura del diritto.
Ovviamente questi fattori non potranno svolgere un ruolo risolutivo, ma sono naturalmente destinati ad attutire gli effetti traumatici di tutti gli altri che incidono sul cambiamento. E questa funzione di abbassamento del livello di conflittualità potrà essere tanto più efficace quanto più puntuale sarà l’azione politica, quanto più condivise saranno le regole generali espresse nella legislazione, più partecipati i processi di formazione delle leggi e più praticato l’impegno per la mediazione.
Oggi si regolano con le parole, con la conoscenza, con il pensiero e con la forza della ragione molti conflitti che ieri venivano regolati con lo scontro e la forza fisica e la nozione di rivoluzione perderà sempre di più il suo ancoraggio con la nozione di violenza. I cambiamenti, anche rapidi e traumatici, nei paesi democratici possono avvenire anche solo cambiando il contenuto delle leggi e attraverso queste può essere più efficacemente contenuta la barbarie, la violenza, l’intolleranza, l’arretratezza culturale. E parallelamente le libertà verranno slegate dalla nozione di arbitrarietà individuale per correlarsi con quella di responsabilità.
Ed è in questo quadro che assumeranno una importanza sempre maggiore tutti gli strumenti istituzionali finalizzati alla tutela dei più deboli e dei diritti offesi ed in particolare la Magistratura, sulla quale nelle società avanzate sono inevitabilmente destinate a scaricarsi molte tensioni latenti nella società. E’ questo il motivo per cui la funzionalità del sistema giudiziario è destinata a diventare in misura sempre maggiore un presupposto ineludibile della convivenza civile. E ad essa, piuttosto che allo spauracchio della insicurezza urbana - che costituisce un effetto solo indiretto e superficiale dell’illegalità diffusa - dovrà essere prestata una attenzione maggiore di quanto non avvenga oggi.
E tanto più le leggi saranno adeguate ad intercettare i reali bisogni sociali, tanto più si potranno ridurre le occasioni di conflittualità e porre le basi perché le altre componenti dello sviluppo possano rendere al meglio.
Le leggi stabilite da organismi democraticamente eletti, ed anche da organismi sopranazionali, segneranno la nuova grammatica dei rapporti e dei conflitti sociali, anche se comunque anch’esse saranno esposte alla strumentalizzazione per fini di sopraffazione ed acquisizione di posizioni di potere. E a maggior ragione se i presupposti di fatto della realtà, che determinano la formazione di nuove leggi, tendono a cambiare continuamente e le nuove leggi a non essere più adeguate a regolare i fenomeni che ne costituiscono l’oggetto.
Comunque il metodo di estendere la cittadinanza e di dominare le diversità, oggi tanto numerose e complesse, attraverso regole maturate in un contesto democratico rappresenta l’unica speranza per il nostro futuro prossimo venturo.
Ovviamente questa prospettiva non sarà in grado di assicurare sempre le auspicate condizioni di giustizia e di equità che teoricamente ne costituiscono la ragion d’essere. Non è escluso che continueranno a sopravvivere in certa misura ancora le dinamiche conflittuali tradizionali e quelle nuove determinate da nuove situazioni imprevedibili. La prevaricazione dell’uomo sull’uomo sopravviverà, ma tenderà ad affermarsi attraverso modalità sempre meno correlate alla prepotenza e la violenza fisica e sempre più legate alla strumentalizzazione captatoria delle parole e del pensiero, ed anche attraverso gli strumenti mediatici, della manipolazione e falsificazione delle informazioni.
Anche se la democrazia è l’unico sistema immaginabile di formazione di un ceto politico e di leggi che rispondano all’interesse dei cittadini, vi sono tanti modi attraverso i quali essa si esprime, molti dei quali facilmente esposti a meccanismi di alterazione che consentono ai portatori di interessi molto forti di captare agevolmente il consenso degli elettori ovvero che non consentono a molti elettori di esprimere in forma adeguata la rappresentanza dei propri interessi. Si pensi ad esempio al divario che esiste oggi tra coloro che su un territorio esercitano di fatto il diritto al voto e coloro che per effetto di una mobilità così diffusa non hanno accesso ad alcuna forma di rappresentanza. Si pensi a tutti i sistemi ove è possibile esprimere il diritto al voto solo ratificando o meno candidature calate dall’alto e senza alcuna possibilità di intervento sulla possibilità di formazione delle stesse. Probabilmente siamo ancora alla preistoria di una epoca che possa essere qualificata veramente democratica. E siano alla preistoria di istituzioni internazionali che possano dirsi ampiamente rappresentative di stati veramente democratici. E, difatti, non sono stati ancora elaborati a livello internazionale degli standard di democraticità efficaci ed adeguati, tali da potere rappresentare un punto di riferimento di tutti gli Stati che ambiscono ad essere riconosciuti come tali.
Queste carenze lasciano spazio alla possibilità di manipolazione del consenso ed alterano il tasso di condivisione delle leggi. I rischi che ne conseguono sono da una parte l’antipolitica e il discredito delle istituzioni, dall’altra il possibile abbandono di questo piano di risoluzione dei conflitti per un ritorno alla violenza. E spesso queste carenze e gli altri ostacoli alla inclusione sociale sono frutto di intolleranze, anche se mascherate, destinate a generare altre intolleranze.
Anche il decadimento della capacità di legiferare e di tenere ancorata la legislazione a principi di portata costituzionale potrebbe riaprire la spirale della violenza. E vi sono rischi di accelerazione di questo decadimento: da una parte la molteplicità e diversità eccessiva dei livelli di competenza che potrebbero far precipitare le comunità di cittadini nell’incubo della confusione, dall’altra il rischio che le leggi rimangano pura affermazione di principio e vengano sistematicamente disattese, che prenda cioè il sopravvento la cultura dell’illegalità. Vi è poi il rischio del gap temporale tra i conflitti e la loro possibile soluzione affidata ai giudici in un mondo che ha bisogno di soluzioni sempre più rapide.
Vi è bisogno, dunque, da una parte di una grande attenzione non solo ai nuovi contenuti delle leggi, ma anche alla loro effettiva attuazione ed all’ampliamento dei relativi effetti sempre più oltre i confini nazionali, dall’altra ad un metodo, quello giudiziario, che con grande difficoltà tende ad imporre la sua autonomia nei confronti della politica e delle posizioni di potere.
Ma occorre soprattutto una "svolta etica" intesa come ricerca di un consenso condiviso verso un corpo di valori già radicati nelle coscienze, non certo imposto. Il problema non è solo mondiale, cioè rivolto alla coesistenza pacifica delle nazioni, ma anche nazionale, perché all’interno dei singoli paesi si vanno oramai stratificando realtà, vite, mondi diversi, che coesistono sullo stesso territorio in modo indipendente l’uno dall’altro, alcuni dei quali spesso abbandonati all’emarginazione ed allo sbando al di fuori di ogni regolamentazione. Occorre sviluppare la comunicazione, la conoscenza reciproca e la mediazione, ricercare dei valori comuni tra questi mondi che siano all’interno dei parametri costituzionali fondamentali. Se non si persegue questa prospettiva, si apriranno infiniti scenari di violenza e barbarie.
Per realizzare questa svolta etica la politica dovrà riformare le sue regole, rinnovare i meccanismi di formazione della sua classe dirigente ed essere capace di controllare le dinamiche sociali ed economiche sottraendole ad ogni forma di soggezione. Occorrerà inoltre che diventi sempre più capace di adeguare le regole e la legislazione allo stesso ritmo di cambiamento della realtà, addirittura anticipandola per dare ad essa un indirizzo. Ed accetti poi la soggezione alle stesse regole, quando vengano applicate per il tramite del potere giudiziario.
E quando la legislazione avrà cristallizzato nuovi valori in norme giuridiche, mutuando principi sedimentati nelle coscienze sociali ed acquisiti sul piano politico, occorrerà assicurare la concreta attuazione di questa nuova legislazione, che potrà assumere anche un rilievo rivoluzionario se comporterà nella sua concreta applicazione il superamento delle resistenze degli interessi particolari sottoposti alla soggezione della norma. E, difatti, il problema è che le resistenze degli interessi che in passato si affermavano attraverso gli strumenti delle dittature, delle violenze e delle guerre, oggi, ed a maggior ragione nel futuro prossimo venturo, si manifesteranno attraverso i nuovi fascismi che tenteranno di strumentalizzare o paralizzare i meccanismi della democrazia e del diritto ricorrendo alla falsificazione, alla illusione, alla delegittimazione, alla manipolazione dei mass media. E giustamente Morin ci avverte che occorre attrezzarsi per non finirne soggiogati. Occorre prefigurare i rischi di questo incerto futuro per poterlo affrontare razionalmente e con spirito volto a soddisfare quelle che Moro definiva “le impellenti esigenze di una società adulta e matura”.
Ma sarà inevitabile che anche se la legislazione riuscirà a sottrarsi all’effetto del liberismo sfrenato e ad imporre regolamentazioni per governare le dinamiche sociali ed economiche, i portatori dei relativi interessi si attrezzeranno per renderle inefficaci. Ne potrà conseguire anche uno scontro tra dinamiche diverse che spetterà prima alla politica e poi al diritto tentare di governare. Di questo conflitto non saranno tanto importati le conseguenze immediate – sulle quali spesso viene concentrata, in particolare da posizioni estremistiche, una attenzione sproporzionata ed irragionevole - quanto piuttosto quelle destinate a radicarsi nel tempo ed a stabilizzarsi sino a diventare patrimonio della coscienza comune. Vi sono già stati momenti in cui parametri cruciali di questo conflitto sono stati definiti con la formazione delle grandi costituzioni moderne.
Sarà inevitabile comunque che la democrazia da sola possa non essere in grado di assicurare il cambiamento, quand’anche fosse una democrazia diffusa e partecipata. Occorrerà qualcosa di più. Utilissimi a tale proposito i suggerimenti che Morin ha posto a base della teoria della conoscenza della complessità (“I sette saperi necessari all'educazione del futuro”): la democrazia deve essere consapevole, deve essere messa in condizione di prefigurare ed affrontare i rischi di errore e di illusione che insidiano costantemente la mente umana, e lo stesso ruolo del cittadino elettore deve essere cautelato dalle falsificazioni e dalle illusioni, che alterano le conoscenze necessarie per esercitare le scelte, in modo che sia ristabilita attraverso gli istituti democratici una corretta relazione di reciproco controllo fra la società e gli individui.
La storia della democrazia italiana fornisce la dimostrazione palese di come, dopo il terrorismo e le stragi politiche, si siano evoluti i meccanismi di condizionamento del cambiamento. L’osservazione di questo processo storico ci mette in condizione di ricercare le contromisure per contenerne gli effetti, per contestualizzarli, per elaborare le strategie che permettano di affrontarne i rischi.
La storia della democrazia italiana, che ha trovato una sintesi nel momento di portata rivoluzionaria della formazione della Carta Costituzionale, è una lunga storia di contrapposizione tra forze divergenti in direzioni completamente opposte, sulle quali i partiti politici tradizionali hanno reiteratamente e con grande difficoltà tentato di imporre la logica della composizione nell’ambito delle istituzioni democratiche. La ribellione alla attuazione dei principi di quella Carta Costituzionale si è manifestata in vari modi dalla strage di Portella delle Ginestre, con le stragi successive, gli omicidi politici ed il terrorismo, che tentarono di imporre prima l’intimidazione e poi il senso di insicurezza ed il bisogno di autorità. Oggi la medesima strategia si attua con effetti similari attraverso le strade insidiose della manipolazione dell’opinione pubblica, della falsificazione, ed anche dell’avvilimento di tutti gli organismi di controllo. E bisognerà lavorare per ripristinarne l’effetto deterrente rispetto al prevalere, già sperimentato, di personalismi a danno degli interessi generali.
La falsificazione si realizza in concreto anche con il riduzionismo e la superficialità, ovvero il tentativo di prospettare la semplificazione della complessità, tipico degli estremismi.
Quali ne siano la modalità, le azioni dirette ad ostacolare l’interpretazione della realtà in determinate condizioni potrebbero celare la stessa carica eversiva che in contesti diversi si esprime attraverso gli atti di terrorismo indiscriminato.
La singolarità della situazione italiana è che la democrazia si consuma tra divaricazioni spesso irriducibili piuttosto che tra scelte, anche radicalmente diverse, tutte costruttivamente orientate verso un medesimo modello di convivenza. L’ampliamento delle libertà può aprire la strada anche ad ogni possibile falsificazione non ed a queste si deve rispondere solo con la valutazione critica, ma anche con il controllo dei poteri occulti e della illegalità organizzata e con la piena funzionalità degli istituti deputati all’accertamento dei fatti ed alla affermazione della legalità.
Ove queste ulteriori cautele non venissero perseguite, si potrebbe determinare la legittimazione della coesistenza, insieme al potere dello Stato, di centri di potere paralleli e potrebbe prevalere la tentazione di lasciare che ciascuno di questi poteri regolamenti in modo autonomo i propri ambiti di influenza. E’ quanto nei fatti già avviene in modo surrettizio, al di fuori di un consenso esplicito e di una legittimazione. Solo una società trasparente può ripristinare un clima di piena fiducia nei confronti dei meccanismi della politica e più in una società si ripristina la fiducia, più questa tende a svilupparsi. La mancanza di fiducia, quand’anche gli istituti democratici rimanessero formalmente inalterati, porta al totalitarismo ed alla necrotizzazione nella società, la degradazione della società in massa, in folla di persone slegate tra loro. E l’illegalità organizzata, le falsificazioni, le illusioni si potrebbero anche proporre come condizioni di sicurezza dopo avere determinato le ragioni dell’insicurezza.
Occorre distruggere, dunque, attraverso i meccanismi istituzionali il potere che l’illegalità ha nella società italiana. Una cosa del genere sarebbe di tale portata innovativa da realizzare di fatto una vera e propria rivoluzione in grado di rivitalizzare radicalmente la possibilità di sviluppo dei diritti e di ripristinare la fiducia nello Stato. E’ questa la rivoluzione prossima ventura che mi auguro si verifichi ancor prima del 2047.