lunedì 16 febbraio 2009
La acquisizione della notizia di reato nel progetto di riforma del cpp
Attribuendo alla polizia giudiziaria il potere esclusivo di individuare le notizie di reato e scindendo il momento della sua acquisizione della notizia di reato da quello di esercizio dell’azione penale, si svuota di fatto il principio di obbligatorietà di cui all’art. 112 Cost
Innanzitutto perché si circoscrive l’ambito di coloro che possono individuare un reato e poi perché si esclude proprio il PM che è l’organo tecnico individuato dall’ordinamento a questo scopo. Un capovolgimento dello schema disegnato dal cpp del 1988.
A fronte dell’interesse dichiarato ad eliminare spazi di arbitrarietà nella individuazione della notizia di reato, non ci si affida ad una regolamentazione che assicuri principi di obiettività, generalità ed astrattezza, ma ci si limita a spostare questa pretesa arbitrarietà da un organo tecnico, quale è il PM che offre garanzie giurisdizionali, ad un altro organo, la polizia giudiziaria, che queste garanzie non le può offrire. Anzi quelle poche che ha le vengono tolte.
Nella sostanza non viene più assicurata la trasparenza in quella delicata fase di passaggio dalla analisi dei fenomeni criminali alla definizione di un strategia di scandaglio al loro interno. Sarebbe bastato imporre al PM un obbligo di motivazione e di documentazione sul processo di acquisizione della notizia di reato ed automaticamente la previsione di una futuro controllo avrebbe eliminato la possibilità di qualsiasi abuso. Essa è oggi implicita nei criteri di priorità che completano un sistema di controlli sull’operato del PM, perseguito anche mediante gli strumenti dell’accentuazione del vincolo gerarchico tra sostituti e capo della procura e la temporaneità degli uffici direttivi con verifica dei criteri di gestione dopo quattro anni. Sarebbe stato sufficiente quanto meno aspettare gli effetti di questa riforma da poco entrata in vigore ovvero indicare parametri più puntuali di verifica da parte del CSM .
Le norme proposte denunziano invece tutte una sola e maniacale aspirazione: avvilire il ruolo del PM. Esse, però, perseguono anche il risultato diverso, e non dichiarato, di indebolire il meccanismo di repressione dei sistemi criminali e pregiudicano pesantemente le garanzie giurisdizionali del processo penale, con un risultato finale di realizzare il contrario dell’obiettivo che si assume di volere perseguire.
Saremo tutti esposti alle scelte persecutorie dell’esecutivo, dal momento che la loro arbitrarietà viene considerata un atto di discrezionalità politica e come tale insindacabile.
Ed, a prescindere dagli abusi che rimarrebbero impuniti, l’analisi dei fenomeni criminali più complessi e meno appariscenti sarebbe condizionata dagli umori politici, dalle esigenze di assicurarsi consenso politico, da una visione settoriale conseguente anche alla parcellizzazione degli uffici di polizia sul territorio ed alla molteplicità dei corpi di polizia esistenti in Italia.
Si ripercuoterebbe sul PM e su tutto il meccanismo della repressione penale un processo di dipendenza oggettiva dalle fonti confidenziali, che è tipico della polizia giudiziaria. Non sarebbero degli specialisti ad imporre gli orientamenti della repressione penale, quanto piuttosto i criminali, anche di calibro, che periodicamente si liberano delle scorie della propria organizzazione, o tentano di liberarsi delle organizzazioni concorrenti per guadagnarsi spazio, mossi spesso da interessi o strategie proprie, delle quali la polizia spesso diventa succube e strumento involontario.
Viene di fatto abolito la garanzia di oggettività data dalla visione generale dei fenomeni criminali su un territorio che ha il Procuratore della Repubblica, in quanto punto di confluenza e di concentrazione delle notizie provenienti dai vari di corpi di polizia e di valutazione della loro bontà, anche con riferimento al relativo ipotizzabile esito processuale.
Una seria attività di contrasto al crimine può essere solo il frutto di una visione generale dei fenomeni criminali che si verificano sul territorio al fine di elaborare vere e proprie strategie di contrasto del crimine, di individuare le centrali che alimentano i traffici e le attività illecite, che sono sempre nascoste dietro una cortina fumogena di mezze figure, di esecutori, spesso intercambiabili e facilmente sostituibili. Questo ruolo di alta competenza tecnica viene affidato dalla Costituzione al Procuratore della Repubblica, inteso come componente di un ordine autonomo ed indipendente rispetto al potere esecutivo.
E questa funzione attribuita al Procuratore della Repubblica sul territorio verrebbe di fatto svuotata, egli non potrebbe più svolgere il ruolo di network di competenze ed informazioni diverse necessarie per superare il limite della parcellizzazione della p.g.. Si creerebbe una dipendenza informativa del PM dalla pg, che impedirebbe il processo virtuoso di approfondimento e di analisi del tessuto criminoso di un determinato territorio. E questa visione complessiva e la possibilità di prendere conoscenza anche di reati minori sintomatici di fenomeni criminali più vasti e complessi consente solo al Procuratore della Repubblica la possibilità di valutare la necessità o meno di svolgere e approfondire indagini che si pongano in un rapporto di progressione criminosa inevitabile con altri fatti criminosi più gravi.
Ma in realtà si ha l’impressione che si voglia impedire che questa attività di analisi venga svolta, sia spogliando il PM del suo potere di iniziativa sia privandolo della possibilità di utilizzare strumenti come le intercettazioni che gli consentano di indagare più a fondo, facendo emergere notizie di reato a catena. Cosa che inevitabilmente avviene ogni volta che l’occhio dell’investigatore va ad esplorare a fondo l’interno di un ambiente criminale.
Non siamo un paese dove i fatti criminali costituiscono esplosioni individuali di aggressività o di antisocialità che possano essere trattati atomisticamente, anche se questi fenomeni, che rappresentano solo la marginalità dell’attività criminale, sembrano essere l’unico obiettivo del nuovo modello di processo penale disegnato dal governo.
Anche quando si considerino reati diversi da quelli associativi e propri della criminalità organizzata, questi sono spesso inseriti in un contesto di relazioni criminali che prevedono a monte ed a valle una rete di complicità in attività strumentali o di sfruttamento criminale, che costituiscono l’unico chiavistello disponibile per accedere alle informazioni sul funzionamento del sistema del crimine organizzato. Limitare la repressione penale solo ai fatti atomizzati ed impedire poi l’approfondimento di questi - con le previste limitazioni all’uso dello strumento delle intercettazioni e di qualsiasi altro mezzo di ricerca della prova azionato autonomamente dal PM - significa favorire le strutture di sfruttamento criminale che rappresentano una parte rilevante del sistema economico di questo paese. Ed anche un vasto bacino elettorale.
La lettura complessiva del disegno di legge governativo rende evidente che esso è oggettivamente destinato non già a proteggere i cittadini da una ingiusta indagine, quanto piuttosto a favorire quell’area criminale che mal sopporta anche la celebrazione di un giusto processo.
Viene capovolta la filosofia del sistema di difesa sociale, tant’è che i cittadini saranno esposti alla umiliazione di poter essere convocati ed accompagnati - se necessario anche con mezzi coercitivi - nell’ufficio del difensore dell’imputato per essere da lui interrogati. Senza nessuna garanzia per il testimone, non essendo prevista la presenza di un cancelliere o di un ufficiale di pg che verbalizzi la sua deposizione, e con una ben scarsa garanzia se è prevista la sola pena della multa (alternativa alla pena detentiva da 15 gg ad un anno) per i difensori che alterino il contenuto delle dichiarazioni rese o presentino al giudice indagini difensive falsificate, là dove la norma generale attualmente esistente (art.374 ter cp) prevede la pena da 1 a 5 anni.
Siamo in una fase di avvilimento progressivo della funzione stessa del processo penale e di svuotamento surrettizio dei caratteri democratici della Costituzione. Un processo di alterazione grave dello stato di diritto e dell’equilibrio tra i poteri dello stato, che peraltro è coerente con l’onnipotenza oramai riconosciuta ad un esecutivo senza più contrappesi.
Attribuire la selezione delle notizie di reato di fatto al potere esecutivo significa lasciare i cittadini esposti ad una discrezionalità politica sottratta a qualsiasi controllo giurisdizionale. Significa condizionare tutto il flusso dell’attività penale al modello monolitico del Capo dell’Esecutivo e del gruppo di potere che vi fa riferimento. Significa esporre tutti i cittadini a possibili ricatti da parte del sottogoverno. Significa chiudere ogni possibile spazio di agibilità per chi intenda affermare posizioni sgradite a chi governa. La dimostrazione è data dagli inqualificabili accertamenti eseguiti nei giorni scorsi nei confronti della Casa di Cura La Quiete di Udine che aveva accettato di rendere eseguibile la sentenza non gradita dal Governo relativa ad Eluana Englaro.
In un periodo di serenità certamente meno compromessa che in questa fase politica, al tempo della Bicamerale, nessuno si sognò di espropriare il PM della pienezza dell’esercizio dell’azione penale. Il testo di riforma costituzionale licenziato dalla Bicamerale prevedeva indicazioni di segno completamente diverso da quello attuale. Affermava:
127 L'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria.
132. Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale e a tal fine avvia le indagini quando ha notizia di un reato.
Recitava la relazione di maggioranza redatta dall’on.le Boato:
“Si tratta di una tematica di grande complessità, nella quale si intersecano problematiche di equilibrio costituzionale, di garanzia dell'effettività dell'ordinamento giuridico, di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge…”. E ricordava: “che l'articolo 231 delle norme di attuazione del codice di procedura penale - anche aderendo a pronunzie della Corte Costituzionale - aveva abrogato tutte le disposizioni che prevedevano l'esercizio dell'azione penale da parte di organi diversi dal pubblico ministero….. Si è quindi imposta l'esigenza di individuare un meccanismo che, evitando mere petizioni di principio, consenta di porre rimedio a tale situazione, definendo un circuito suscettibile di coinvolgere in modo pieno ed efficace tutti i livelli di responsabilità istituzionale e di rendere effettiva la dichiarata obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale”
Aveva visto giusto il senatore Cossutta nella sua relazione di minoranza affermando:
“Ci sembra che corrisponda ad esigenze di garanzia affidare il delicato potere di iniziativa penale a magistrati esperti di indagini, ma anche formati nella cultura delle garanzie, nell'abitudine al contraddittorio, nell'ascolto delle ragioni di tutti e dei quali sia prevista la soggezione soltanto alla legge.” E aveva visto giusto individuando la pericolosa tendenza pur manifestatasi allora con l'esclusione della sottoposizione del PM «soltanto alla legge» che faceva già temere “il risorgere di pratiche gerarchiche, che possono ricondurci ai «porti delle nebbie» e all'epoca dell'insabbiamento di tanti procedimenti sulle stragi e la corruzione”.
Se vi fosse una reale volontà di assicurare un sistema di esercizio dell’azione penale libero, rispettoso del diritto ed autonomo rispetto al potere esecutivo, sarebbero state quanto meno previste garanzie per gli ufficiali di polizia giudiziaria che vengono chiamati ad esercitare un potere tanto delicato, sarebbe stato previsto uno specifico divieto di interferire con la loro attività, di dare direttive e anche solo di chiedere loro informazioni . Sarebbero state rafforzate le garanzie di indipendenza per chiunque esercita poteri di controllo, di indagine o ispettivi nell’ambito della pubblica amministrazione. Invece contestualmente si tenta di introdurre norme che ampliano i poteri di condizionamento da parte degli organi di governo, abolendo anche quei residui meccanismi di salvaguardia attualmente previsti, per quanto già ridotti e di scarsa efficacia. La riforma difatti prevede la eliminazione del nulla osta da parte del PM e del PG per i casi di trasferimento o promozione del personale e del dirigente della sezione di p.g., circostanza che li espone completamente ai dictat del potere esecutivo.
Lo spostamento in capo alla polizia giudiziaria del potere di individuare le notizie di reato nei confronti delle quali procedere avrebbe richiesto la creazione di un nuovo statuto per la polizia giudiziaria, la sua elevazione ad organo con le stesse garanzie dei magistrati e soprattutto il completo sganciamento di tutti i corpi di polizia dal vincolo gerarchico di carattere militare. Carabinieri e Guardia di Finanza oggi sono anche formalmente ancora sottoposti a questo vincolo che è assolutamente incompatibile con una attività di natura giurisdizionale. E la compatibilità dell’obbligo gerarchico di questi militari a riferire ai loro superiori viene ribadita, prevedendo che l’obbligo al segreto degli atti di indagine assicurato dal disegno di legge della Camera n.1415, abbia una applicazione limitata ai soli casi in cui la condotta criminosa venga realizzata mediante modalità o attività illecite (escludendo quindi i militari tenuti a rispettare il rapporto gerarchico).
Questo principio già desumibile da quanto si è detto è ribadito in una norma che prevede esplicitamente che non potrà più esser fatto alcun uso e svolta alcuna indagine in relazione alle notizie di un reato per le quali, sia pure a fronte di un fatto sintomatico, non siano state individuate circostanza concrete di violazione di legge penali. Significherà per il PM non potere più eseguire autopsie anche quando sussista qualche dubbio sulle cause della morte, non potere eseguire più accertamenti sulle cause di un fallimento, sui risultati di una verifica fiscale addomesticata, sulla denunzia di un privato che non sia stato in grado – come spesso accade - di esporre compiutamente i termini di un grave vicenda criminale di cui sia rimasto vittima. Significherà non potere eseguire perquisizioni alla ricerca di prove nei confronti di persone sospette dopo la commissione di un reato, se questo non sia stato previamente circostanziato dalla p.g. E le relative segnalazioni dovranno essere comunque distrutte.
Attività di approfondimento potranno essere svolte solo dalla polizia giudiziaria, che spesso non è organizzata a farlo o non ne ha la competenza tecnica, o si trova in una situazione di aver bisogno della copertura di un magistrato. Ma soprattutto la polizia giudiziaria sarà tenuta ad agire sulla base degli imput – insindacabili, insondabili e non verificabili - del potere esecutivo. E se non avrà agito, la relativa inattività non sarà sottoposta al vaglio di un giudice. Un capovolgimento completo in un sistema nel quale il GIP, a garanzia dell’applicazione della legge, potrebbe sempre poter rifiutare la richiesta di archiviazione di un PM e disporre che egli comunque proceda ad accertamenti.
C’era solo da razionalizzare il sistema sottraendolo per quanto possibile alla causalità ed inserendovi - al contrario di quanto intende fare il governo - i caratteri di autorevolezza della visione strategica del Procuratore della Repubblica, previamente definiti in via generale e specifica mediante la previsione di apposite procedure, formali, motivate e verificabili al momento del rinnovo dell’incarico.
Operare al di fuori di questo schema significa incidere non solo sull’art. 112 Cost., ma anche su altri principi fondamentali tali dalla Carta Costituzionale, non suscettibili di revisione, in quanto contenuti nella prima parte, quali il principio di eguaglianza dei cittadini e quello di legalità.
Nulla dice il disegno di legge sul potere di denuncia di reato che può essere esercitato da qualsiasi cittadino. Rimane oscuro se la modifica dell’art. 330 cpp comporterà anche una modifica dell’art. 333 cpp con il filtraggio delle denunzie dei privati da parte della polizia giudiziaria. E proprio i cittadini e le associazioni di cittadini potrebbero teoricamente integrare i settori di illegalità lasciati inesplorati dalle omissioni dell’esecutivo se non incombesse su di loro il ricatto continuo della incriminazione per calunnia.
Senza garanzie diverremo un paese ove non si può chiedere conto e dove neanche l’opinione pubblica attraverso la stampa potrà farlo. Dove viene abolita la responsabilità e viene legittimata la possibilità per il potere esecutivo di coprire le illegittimità proprie e della propria base elettorale di riferimento.
La limitazione proposta all’azione penale del PM adombra un messaggio che oserei definire mafioso, nel senso di propensione a coprire invece che a scoprire gli altarini di una classe dirigente che si nega alla trasparenza e tende a nascondere la propria spregiudicatezza.
Questa norma – i cui effetti saranno amplificati a dismisura dalla centralizzazione delle notizie di reato in unica banca dati - è mirata a stabilizzare un controllo pieno sulla società italiana, ad assicurarsi le mani libere e la benevolenza di vasti settori della criminalità economica. E non è senza significato che analoghe iniziative siano state attuate anche in materia fiscale con la centralizzazione dei controlli fiscali e la eliminazione dell’autonomia di accertamento da parte delle Agenzie territoriali delle Entrate.
Proprio in questi giorni anche il Presidente della Corte dei Conti ha manifestato le proprie perplessità in ordine alla nuova normativa introdotta dal ministro Tremonti che limita notevolmente la possibilità per gli uffici finanziari di acquisire gli indispensabili mezzi di prova per gli accertamenti fiscali. Ed ha ricordato la soppressione dell’appena reintrodotto obbligo di allegazione alla dichiarazione Iva degli elenchi clienti/fornitori, che, peraltro, in ragione dell’ormai generalizzata informatizzazione nella tenuta delle contabilità, non avrebbe provocato particolari complicazioni gestionali ed oneri aggiuntivi ai contribuenti, e l’abrogazione di altre norme in materia di limitazione dell’uso di contanti e di assegni, di tracciabilità dei pagamenti e di tenuta da parte dei professionisti di conti correnti dedicati.
Vi è dunque una strategia ad ampio raggio non a favore della libertà dei cittadini, ma della irresponsabilità dei cittadini, nei cui confronti non si vuole sia compiuto alcun accertamento, ma solo che ci si limiti a prendere atto della loro responsabilità penale o fiscale, quando questa sia tanto palese da non potere voltare lo sguardo dall’altra parte, quando chi ha commesso una violazione della legge non siano stato tanto bravo e furbo da cautelarsi.
Un potere invasivo sino all’inverosimile che ha sfiducia in tutte le articolazioni dello Stato ed una autostima smisurata solo in se stesso. Brutto segnale per un paese moderno, per una democrazia, per uno stato di diritto. Questo progetto di riforma invece rischia di cambiare l’assetto del paese introducendo non pochi caratteri tipici di un sistema autoritario.
domenica 15 febbraio 2009
Perché il processo penale è in crisi
LA MANCANZA DI RIMEDI STRUTTURALI
La funzionalità del processo penale deve essere affrontata con soluzioni che riguardino l'intera struttura del processo. La riforma proposta dal governo non è in questo senso.
Alcune delle modifiche proposte possono essere utili, ma si tratta di palliativi con una ricaduta limitata, altre sono invece rivolte addirittura a gravare il processo di ulteriori oneri con inevitabile allungamento dei tempi (eliminazione della previsione di un vaglio di pertinenza del giudice sulle nuove prove dedotte dalla difesa dell'imputato).
Uno dei fattori che disperde l'impegno giudiziario è dato dalla possibilità per le difese di proporre continuamente nuove questioni e mutamenti di riti, circostanza che non consente al giudice di programmare il proprio lavoro e porta ad una dispersione enorme di energie giudiziarie. La stessa previsione di fissazione dell'agenda del Tribunale da parte del GUP - e prima di conoscere la consistenza del processo - costituisce un non senso che impedisce la programmazione del lavoro. Ma anche la previsione di una udienza preliminare strutturata come una ulteriore fase di giudizio si è in pratica tradotta in un quarto grado che prima del 1989 non esisteva. Ed il GUP come giudice unico del giudizio abbreviato si è rivelato una incoerenza sistematica dopo la introduzione del giudice unico.
L'APPELLO
I tempi del processo sono raddoppiati dopo le riforme del giudice unico e del giusto processo, un prezzo necessario che avrebbe però imposto qualche rinunzia. Non possiamo più permetterci un doppio esame nel merito dopo un processo tanto garantito in primo grado. Non dico l'eliminazione dell'appello, ma almeno la creazione di un filtro di ammissibilità, la previsione dell'impossibilità di appellare per motivi di quantificazione della pena, lasciando casomai la pienezza dell'appello solo per i processi di Corte di Assise e per le sentenze di condanna a pena superiore ai 3 anni, che ogni anno sono solo 7500 circa su 148.000 condanne alla reclusione da parte del giudice di primo grado.
Il 70% dei processi in appello si concludono con la conferma della responsabilità ( di cui il 25% con conferma della sentenza di primo grado ed il 45% con riduzione della pena). L'altro 30% dei processi di appello finiscono con un 10% di prescrizioni, un 8% di ndp per motivi processuali e solo un 12 % con riforma nel merito.
E' solo per salvaguardare questi circa 10.000 processi che altri 70.000 processi che arrivano ogni anno presso le Corti di appello rimangono congelati per un tempo che varia dai 3 ai 5 anni.
Ma se non vi fosse l'appello gli imputati non rimarrebbero senza garanzia, in quanto potrebbero sempre ricorrere in Cassazione per essere ammessi ad un secondo giudizio di merito o in qualsiasi tempo, anche dopo che la sentenza sia divenuta definitiva, far valere la propria innocenza mediante la produzione di una nuova prova risolutiva della loro innocenza, non esaminata nel corso del primo giudizio.
E' evidente che introducendo un filtro le Corti di Appello sarebbero sgravate di oltre i due terzi del proprio lavoro e circa 400 magistrati – solo con riferimento al penale - potrebbero essere utilizzati per rendere più celere la fase di primo grado dinanzi ai Tribunali.
La eliminazione dell'appello solo per il PM, invocata come soluzione da qualcuno, è una presa in giro, dal momento che gli appelli del PM sono meno del 5% e questa soluzione, a parte la palese incostituzionalità in un processo di parti, sarebbe assolutamente inefficace
LA DISTRIBUZIONE DELLE RISORSE SUL TERRITORIO
Un rimedio strutturale sarebbe la riduzione di un terzo degli uffici giudiziari mediante l'accorpamento della miriade di piccoli tribunali e di Corti di Appello disseminate sul territorio.
94 Tribunali su 165 hanno un bacino di utenza inferiore ai 250.000 abitanti, 10 Corti di appello su 29 inferiore al milione.
Poi vi sono le conseguenze della normativa che impedisce una equilibrata distribuzione dei magistrati nei vari uffici giudiziari, in conseguenza della separazione delle funzioni requirente e giudicante.
Oramai vi sono una trentina di Procure con meno della metà del loro organico. Alla procura per i minorenni di Caltanissetta e a quella di Reggio Calabria i posti scoperti hanno raggiunto il 100%, il che vuol dire che in questi uffici ormai c'é solo il procuratore capo e nessun sostituto. Il problema non riguarda solo il Sud, ma anche tanti uffici requirenti del Nord che hanno raggiunto vuoti di organico da allarme rosso. Se a Gela le scoperture sono pari all'80%, Pavia e Alba hanno raggiunto il 75%, come Enna e Patti; Gorizia è al 60%, appena al di sotto di Nicosia. Ragusa e Nuoro (67%).
La ragione del fenomeno è che sinora i posti vuoti nelle procure venivano coperti con l'invio di magistrati di prima nomina; una soluzione diventata impossibile da quando è stato introdotto il divieto di assegnare le toghe a inizio carriera a funzioni penali monocratiche, come quelle di pm o di giudice fuori da un organo collegiale
ARRETRATEZZA ORGANIZZATIVA
Vi sono poi problemi di arretratezza derivanti dalla mancata riorganizzazione dei servizi e delle normative in funzione delle nuove potenzialità informatiche che non sono stati affrontati e di incapacità di selezione di una classe dirigente all'altezza della situazione. Ma questo è un altro problema, da solo certamente non risolutivo, che non riguarda solo
sabato 14 febbraio 2009
Non sono possibili riforme della giustizia senza conoscere il contesto
La indicazione di possibili soluzioni ai problemi della amministrazione della giustizia presuppone una analisi corretta su quali siano le ragioni che hanno determinato l’accentuarsi delle sue principali problematiche. E, poiché i dati statistici posizionano la crisi all’indomani delle grandi riforme degli anni che vanno dal 1989 al 2000, è legittimo il dubbio che sia mancata una attenzione a mettere a punto tali riforme con opportuni adeguamenti organizzativi e normativi.
Gli operatori del settore sanno che alcuni interventi realizzati successivamente in modo disordinato e senza sinergie, anziché migliorare la loro portata, hanno creato un sistema caotico; sanno che la non appropriata organizzazione dei servizi ed il mancato supporto di una classe dirigente in grado di gestirli ha depauperato l’enorme potenziale di energie intellettuali investite nel settore; sanno che i continui attacchi alla magistratura, ai principi di legalità e di eguaglianza dei cittadini rischia di appannare definitivamente quelle energie e di trasformare in pura burocrazia l’istituzione giudiziaria. Sanno che la campagna contro giudici fannulloni è strumentale ed al massimo tocca una marginalità di molto inferiore a qualsiasi altro settore. Il modo fuorviante con cui vengono sbandierati dati statistici falsi o erroneamente elaborati dimostra solo il livello di approccio di un ceto politico inadeguato ed animato da prevalenti finalità di delegittimazione.
E’ paradossale che si pretenda di riformare ulteriormente la magistratura proprio nel momento in cui viene applicata una nuova normativa di grande impatto, quella sulla temporaneità degli uffici direttivi e semidirettivi, che ha una effettiva potenzialità riformatrice non ancora sperimentata.
Questa riforma in un arco limitato di tempo ha già dato luogo alla sostituzione di ben 257 titolari di uffici direttivi e 89 di uffici semidirettivi. Un ricambio di tale portata rappresenta un fattore innovativo che non ha precedenti nella storia della magistratura ed è destinato a dare carattere strutturale alla sperimentazione di nuovi modelli organizzativi. Una innovazione vera, che potrà avere delle ricadute significative ed estese, se saranno colti anche i risultati della riflessione già da tempo avviata motu proprio dalla magistratura su indicatori di funzionalità, analitici ed articolati in relazione ai più significativi mestieri del giudice, cui oggi è possibile far ricorso sulla base dei dati monitorati attraverso gli strumenti informatici.
E’, di conseguenza, altrettanto paradossale che da parte governativa vengano proposti modelli di valutazione della laboriosità primordiali (i cd. tornelli) rivolti a misurare la presenza in ufficio di magistrati e dipendenti della Giustizia, di portata ancora più arretrata delle statistiche tradizionali misurate senza tener conto delle diverse caratteristiche (tempi, ponderosità e complessità) delle più significative attività svolte.
Mentre tutto il mondo progredito per misurare le prestazioni intellettuali ricorre a strumenti di valutazione complessi ed articolati (resi fruibili dall’informatica) e valorizza attraverso gli strumenti telematici il lavoro a distanza, si pretende di assumere come unità di misura del lavoro dei magistrati la presenza in uffici disadorni, con scarse strutture e servizi, che non consentono neanche la concentrazione necessaria alla riflessione.
Peraltro, se ciò dovesse significare l’abbandono del ricorso alla utilizzazione dei dati raccolti nelle banche dati, comporterebbe il progressivo impoverimento della capacità delle strutture giudiziarie di tenere a regime la moltitudine di dati che vi sono conservati e di ottenere un ritorno di funzionalità dai rilevanti investimenti realizzati nel settore, peraltro già compromessi dalla riduzione dei necessari impegni economici.
La presunzione di ricavare dalla presenza in ufficio un indice di produttività appartiene ad una concezione da caserma che non attribuisce alcuna rilevanza alla qualità del lavoro, ai criteri di valutazione e verifica delle complessità e si fonda sull’inconfessabile retropensiero secondo il quale non ha senso trarre giovamento dalle energie intellettuali che i magistrati spendono lavorando ulteriormente presso le proprie abitazioni invece di dedicarsi agli affetti familiari. Un giorno il ministro Brunetta ed i suoi soci si sveglieranno e capiranno che l’Italia sopravvive proprio grazie a tante persone che – in tutti i settori - esprimono un elevato senso dello Stato.
Sembra quasi che gli attuali membri del Governo abbiano bisogno di far ricorso ai tornelli per non confrontarsi con le complessità, nella preoccupazione – che solo a loro appartiene - di rinvenire nei risultati di verifiche oggettive limiti alle arbitrarietà cui vorrebbero adeguare anche la magistratura. Brunetta come ministro dell’innovazione è in effetti l’altra faccia di Calderoli ministro della semplificazione: entrambi esprimono un semplicismo disarmante in cui si riassume una concezione medioevale della innovazione e della capacità di governo.
Già il Ministro Castelli si era prodigato - peraltro rivolgendosi a consulenti dimostratisi non in grado di realizzare l’obiettivo - per la creazione di un cd. “cruscotto” rivolto a misurare la laboriosità dei singoli magistrati come una sorta di “tornello dei numeri” analogo a quello suggerito dal Ministro Brunetta. Una iniziativa che non era mirata a produrre alcun miglioramento organizzativo, perché mirava a colpire singoli magistrati anziché intercettare le modalità organizzative sbagliate che producono inefficienza. Non teneva conto, cioè, del fatto che il lavoro dei singoli magistrati dipende dal carattere collegiale dell’unità di produzione costituita dalle sezioni. E non teneva conto che è compito proprio del Ministro della Giustizia assicurare il buon funzionamento dell’organizzazione giudiziaria e mettere a disposizione mezzi e personale adeguato.
Non teneva conto che i problemi dei tempi lunghi della giustizia hanno cause ben diverse e tutte riferibili a fattori strutturali di carattere normativo e organizzativo ascrivibili alla latitanza del Ministero e del legislatore che è chiamato a trovare soluzioni normative per rendere più efficaci le procedure processuali.
Ed invece il Ministro della Giustizia ha avviato la approvazione di un progetto di riforma del processo civile senza alcun confronto con la magistratura, con l'avvocatura e la dottrina, con "lavori preparatori" costituiti da poche righe e qualche stringato resoconto parlamentare, senza considerare la pratica offensiva della presentazione di rilevanti e delicati interventi riformatori all’interno di manovre finanziarie, quasi che vagonate di studi sul tema possano considerarsi una "sovrastruttura" del sistema economico.
La realtà della giustizia italiana non è immobile, è un grande cantiere con enormi disponibilità e formidabili potenzialità cui occorre dare sbocchi meditati. L’amministrazione della giustizia ha una tradizione gloriosa e la produttività complessiva dei magistrati è in continuo aumento. Dagli inizi degli anni 2000 il sistema statistico della Giustizia è andato raffinandosi con un monitoraggio analitico di tutte le attività giudiziarie, circostanza che consentirebbe valutazioni approfondite ai fini della identificazione dei problemi strutturali con conseguente possibilità di adeguamento dei modelli organizzativi di quelle realtà che evidenziano maggiori carenze.
Ma non è un caso che sul sito del Ministero della Giustizia la pubblicazione delle statistiche è ferma al 2005, nonostante esso disponga di dati statistici praticamente in tempo reale. Non è un caso che mancano elaborazioni sul funzionamento delle sezioni e si rifugge dalle indicazioni dei dati aggiornati che possano identificare le serie storiche in grado di intercettare le inefficienze di alcune dirigenze o i modelli virtuosi di altre. In tal modo non è sempre possibile verificare ed eventualmente contraddire i dati, che vengono sbandierati a fini strumentali in modo errato o fuorviante.
Lo spostamento dell’attenzione in misura pressoché prevalente su tematiche giudiziarie che nulla hanno a che vedere con le disfunzioni del Servizio Giustizia - il più macroscopico, a prescindere dal merito, quello relativo alla separazione delle carriere - rende fondato il sospetto di una volontà sottesa di disarticolare il sistema. La assenza di una visibile determinazione ad identificare le defaillance dirigenziali conferma tale sospetto. La inerzia di iniziative parlamentari rivolte alla semplificazione delle procedure e delle fasi processuali è destinata ad accentuare nel prossimo futuro la situazione con l’effetto inevitabile dello spostamento delle energie giudiziarie ancor di più verso quelle procedure meno garantite previste a carico dei soggetti più deboli, verso provvedimenti sommari, cautelari e d’urgenza che lasciano nei fatti privi anche di sostanziale tutela civile le parti meno abbienti che non si trovano nelle condizioni economiche di sopportare i tempi lunghi per ottenere giustizia. E questa situazione aprirà inevitabilmente la strada anche ad una democrazia di carattere autoritario nella quale non saranno più rinvenibili gli aspetti peculiari dello stato di diritto.
Il carattere prevalentemente militare che si tende ad attribuire alle operazioni di polizia, accentuato dall’affiancamento ad essa di militari e dalla esclusiva derivazione militare delle nuove assunzioni nella Polizia di Stato, gli esasperati proclami di membri del governo verso i problemi della sicurezza, la loro amplificazione oltre misura da parte dei media, la prevalenza degli arresti e dell’azione degli organi di polizia nei confronti di tossicodipendenti, fasce di emarginati ed extracomunitari, l’aggressione continua ed esasperata nei confronti delle iniziative dei PM , la accentuazione della loro subordinazione gerarchica e l’impossibilità di utilizzare per ben 5 anni nelle funzioni requirenti e monocratiche i giovani magistrati, accentuano la sensazione di oggettiva impossibilità di perseguire le pratiche illegali più radicate e che più profondamente inquinano il tessuto economico e sociale del paese, lasciando ampia libertà di azione a truffatori, falsificatori, bancarottieri, estorsori, riciclatori, usurai, evasori fiscali e ad una classe dirigente corrotta o irresponsabile, peraltro già tutti graziati per il passato dalla riduzione dei termini prescrizionali e dall’indulto. E pochi si rendono conto che gli effetti di questi benefici aumenteranno la già scarsa efficacia della giustizia penale, essendo destinati i relativi effetti, sfalsati nel tempo, a prodursi ancora per 5 o 6 anni, con il conseguente annullamento del suo effetto dissuasivo, fenomeno questo si, che rappresenta la vera causa produttiva della diffusa percezione di insicurezza.
Nel tentativo di bloccare questa degenerazione istituzionale occorre stimolare un processo di razionalizzazione, che passa necessariamente attraverso la semplificazione dei regolamenti delle cancellerie e lo svecchiamento di tutta le dirigenze giudiziarie, ponendo come condizione insuperabile la approfondita conoscenza delle nuove tecnologie informatiche e dei processi di riorganizzazione, in modo da avviare una efficace gestione di tutti i servizi amministrativi e di cancelleria. Occorre razionalizzare le circoscrizioni ed i distretti giudiziari stimolando l’accorpamento dei piccoli tribunali e delle piccole Corti di appello. Su 166 tribunali ve ne sono ben 77 con meno di 15 giudici in organico, solo 34 tribunali con più di 30 magistrati, 94 tribunali con una popolazione di riferimento inferiore a 250.000 abitanti, 10 Corti di Appello su 29 con meno di 20 magistrati e con una popolazione di riferimento inferiore al milione di abitanti.
Occorre inoltre da subito adottare le necessarie iniziative organizzative e normative affinché siano semplificate le procedute di notifica nel settore penale, e che determinati provvedimenti, quali la emissione di decreti penali, la pronunzia di sentenze di improcedibilità e di prescrizione possano essere automatizzati con procedure standardizzate, bypassando adempimenti che, tenuto conto anche della numerosità della casistica distraggono il personale dallo svolgimento del più impellente lavoro corrente.
Questo passaggio è urgente ed indispensabile perché allo stato la presenza massiccia di fascicoli di questa natura altera con un numero oscuro di non irrilevanti dimensioni i dati statistici e non consente di assumere le adeguate valutazioni organizzative e di produttività. A parità di misurazione della laboriosità vi sono uffici che trattano per la metà processi prescritti (e senza parte civile) ed altri che li accantonano concentrando le proprie energie nella esclusiva trattazione di processi che possono arrivare ad un completo esame del merito. Non valorizzare questa differenza dà luogo a confusione ed errori di valutazione.
A tali esigenze si potrebbe porre rimedio rendendo obbligatorio lo scorporo dei dati dei processi improcedibili e prevedendo la soluzione delle problematiche più impellenti con procedure standardizzate da realizzare:
a. con progetti finalizzati da affidare allo stesso personale in servizio, che dovrebbero trovare adeguate forme di finanziamento. Tale modalità sarebbe certamente meno costosa e più affidabile rispetto al ricorso a personale precario esterno. Inoltre sarebbe in grado di coinvolgere il personale, dare motivazione e contribuire alla efficace organizzazione delle risorse in campo.
b. con il reperimento da uffici pubblici del territorio di risorse umane per integrare le carenze degli organici giudiziari,
c. sollecitazione alle regioni e ad agli altri soggetti locali per la organizzazione di corsi di formazione ad hoc e del necessario supporto tecnico-organizzativo,
d. diffondendo la conoscenza delle buone pratiche e delle potenzialità dei progetti già realizzati in modo da socializzare e rendere più diffusamente efficaci le iniziative positive già sperimentate
Naturalmente nessun problema potrà trovare soluzione se si continuerà ad accrescere il numero dei reati (da ultimo le scritte sui muri per il quale appaiono sufficienti adeguate sanzioni amministrative) e non si procederà alla depenalizzazione di quelle condotte che non manifestano alcun carattere di pericolosità sociale quali quella prevista dall’art. 14 della legge sulla immigrazione clandestina che riempie i tribunali e le carceri con iniziative inutilmente persecutorie, posto che i clandestini che si dedicano ad attività criminose potranno essere perseguiti in base a ben altri titoli di reato.
Anche per il settore civile occorre maggiore determinazione, in particolare automatizzando i decreti ingiuntivi e facendo progredire con gli opportuni investimenti il progetto per il processo civile telematico, in modo da razionalizzare l’attività degli operatori ed accelerare i tempi di alcune operazioni, traducendo le interazioni fra le persone in scambi a distanza mediante strumenti elettronici. Ciò comporterà la completa riprogettazione delle mansioni e dei ruoli, delle diverse unità operative (abolizione dell'ufficio copie, dell'ufficio redazione sentenze, ecc.) ed un recupero di risorse umane da reinvestire in altri settori oggi fortemente trascurati.
La sensibilità verso questi obiettivi dovrebbe essere sollecitata dalla constatazione che lo sviluppo economico viene fortemente appesantito anche dai tempi lunghi della giustizia civile, oltre che dalla preoccupazione dei cittadini verso i problemi della sicurezza, sensibilmente acuiti dalle lungaggini dei processi penali. Ma i segnali che vengono da questo governo non sembrano affatto rivolti a rafforzare una funzione così delicata . Occorre verificare quanto si possa fare prescindendo da questo atteggiamento.